mercoledì 30 settembre 2009

Non giurare

Quando mi sono diplomato al liceo scientifico, ho sentito un'inebriante sensazione di liberazione, perché finalmente mi ero liberato della Matematica e del Latino. Ho giurato: mai più matematica, mai più latino! Nello scegliere la facoltà in cui iscrivermi, il criterio di non ritrovarmi queste due materie non è stato secondario. Perciò mi sono iscritto a Giurisprudenza. Poi la vita mi ha portato a Lettere, ma sono riuscito ad evitare il Latino, perché non avevo nessuna intenzione di insegnare.

Quando mi sono laureato, ho riprovato lo stesso senso di liberazione del liceo, pensando: "mai più code in segreteria!"

Ieri, alle due del pomeriggio, ero in fila in segreteria, per inoltrare la domanda di iscrizione al corso singolo di Letteratura latina, per accedere alla classe di concorso per l'insegnamento.

Quando si dice la coerenza. Sono uno spergiuro.

Naturalmente non ci sono riuscito. C'era una lista, messa lì dalla mattina. Io sono arrivato all'una e mezza (la segreteria apre alle tre!) e mi sono iscritto: 55esimo. Sono andato di corsa a casa, a togliermi la camicia sudata e mettermi una maglietta e i pantaloni corti. Un caldo infernale. Cinque minuti e via di nuovo verso la segreteria. Una schiacciatina al prosciutto presa al volo, ed eccomi di nuovo a fare la fila. Fuori dalla porta della segreteria, c'erano almeno una settantina di persone. Qualcuno aveva mandato un parente, la mamma o uno zio, per tenergli il posto. C'era chi bivaccava, con panini e birra. Qualcuno si arrotolava una sigaretta per ingannare l'attesa. Ci si scambiava le proprie frustrazioni per la burocrazia che demoralizzerebbe anche il più ottimista. Alle due e un quarto aprono il portone. In base alla lista bisogna distribuire i numerini, come al supermercato. Entrare significa spingere ed essere spinti, ma una volta dentro c'è solo da aspettare che il ragazzo o la ragazza che ha in mano la lista faccia il tuo nome. Io sono tranquillo perché sono 55esimo e mi hanno detto che danno solo trenta numeri. Se sono rimasto è perché spero che 25 nel frattempo siano morti. Hai visto mai. Insomma, inizia la lettura e la distribuzione dei biglietti. Al quinto nome scoppia un parapiglia. Un ragazzo urla che era lui il quinto. Una ragazza gli dà manforte. A quanto pare, era stata fatta una lista che poi è stata strappata e quella che ora viene letta sarebbe successiva e perciò fraudolenta. Gli animi si scaldano al grido: "Io ci sono dalle 11!", "E io sono venuto da Sesto alle otto!", ecc. ecc. Due ragazze si spintonano. Le separano prima che si attacchino l'una ai capelli dell'altra. La lista viene strappata. Non si sa più quale sia il criterio. Continuano le urla e le spinte. Gli unici tranquilli sono quelli che si sono iscritti online. Categoria privilegiata alla quale non posso accedere per via del fatto che ci vuole il numero di matricola ed io, essendo già laureato, non ce l'ho più.

Così sono andato via, ripensando ai miei giuramenti farlocchi e, contemporaneamente, giurando che avrei trovato su internet, nel sito della Facoltà, i codici degli esami, che mi servono per completare la domanda. Stamattina mi sono alzato presto. Sono collegato da più di un'ora. Ho sfogliato pagine e pagine del sito www.unifi.it e non sono ancora riuscito a trovare quello che cerco. Un labirinto è meno complicato.

Questa è in sintesi la situazione della facoltà di Lettere a Firenze, Non credo sia molto diversa da quella delle altre facoltà d'Italia. Ma, mi rivolgo a chi pensa di iscriversi: non fatelo!

Io intanto vedrò di non giurare più nulla.

venerdì 25 settembre 2009

Il grande sogno - recensione


Cos’è un sogno? È una realtà parallela, in cui tutto è creduto possibile. In cui il desiderio inconfessabile si realizza e corre libero, vestito solo di una maschera in volto. Chi sogna? Verrebbe da dire: tutti! Ma, a ben vedere, sogna chi ha desideri, o almeno così cantava Cenerentola. Per chi invece anche i desideri sono un lusso, non resta che l’incubo: realtà non parallela, ma concreta, delle anime morte a stento nel 1968, salve nel 1996. Un sonno, il loro, senza sogni, ma per questo più leggero e sottile di una gomena. Vite, se così si possono chiamare, appese a un filo; quel filo che realizzerà la promessa escatologica, centrando la cruna dell’ago.

Chi erano i sognatori, the dreamers, nel Sessantotto? Quelli che avevano desideri. Quali desideri? Questo è il punto! Per esempio, il desiderio di andare al cinema. Ma andare al cinema nel Sessantotto era un atto politico. Come anche impedire di andarci. Si pensi a Godard che capeggia il tentativo di bloccare il festival di Cannes, e con Truffaut riesce ad impedire una proiezione, incitando ad unirsi alla rivolta delle università e delle fabbriche. Fare un film nel Sessantotto, soprattutto in Francia, ma prim’ancora in Cecoslovacchia, durante la breve primavera, o nella Germania di Brecht, significava sperimentare nuovi linguaggi, che fossero sovversivi rispetto ai codici tradizionali. Il Verfremsdungeffekt, l’effetto di straniamento, ottenuto con alcuni espedienti tecnici, come il collage, lo sguardo in macchina, il montaggio discontinuo, la recitazione stilizzata, le scritte sovrapposte all’immagine, ha come unico scopo impedire allo spettatore l’identificazione passiva con la storia, con le vicende che coinvolgono i personaggi sullo schermo, per stimolare invece la riflessione. Politica, naturalmente.

Il Sessantotto non è stata una rivoluzione politica, perché non era quello l’obbiettivo. C’è stato un momento, a Parigi, quando De Gaulle sparì, in realtà andando in Germania per assicurarsi la fedeltà delle truppe di Massú, che gli studenti e gli operai avrebbero potuto prendere il potere. Non lo fecero. Prevalse lo spettro della dittatura comunista. O forse la comodità della democrazia rappresentativa rispetto alla fatica della democrazia diretta. Restando nella metafora del sogno, e all’interpretazione che ne ha dato Freud, la rivoluzione del proletariato era il contenuto manifesto che censurava un contenuto latente, più confuso e meno ambizioso: cambiare i costumi. Questo è quello che il Sessantotto è riuscito a fare, probabilmente perché è quello che voleva veramente.

Tutti gli altri obiettivi li ha falliti. O, per l’eterogenesi dei fini, ne ha conquistato la parodia. L’alternativa alla famiglia tradizionale non è stata la comune, ma la famiglia allargata, nel caso migliore, il familismo in quello peggiore. Proprio le comuni sono finite principalmente per l’incapacità di sconfiggere gli istinti naturali della gelosia o della maternità. Il capitalismo è ancora l’impronta dominante della società, la sua unica dimensione, con buona pace di Marcuse. La provocazione di “coloro che non vogliono fare carriera” ha lasciato il posto alla rassegnazione di “coloro che non possono fare carriera”. E mentre il femminismo si rifà il look con il silicone o il botulino, il dibattito è ormai una chiacchiera sul nulla dei talk show. La solidarietà tra le classi o il suo opposto, il conflitto sociale, siedono comode nella propria poltrona dell’autoreferenzialità. Dell’anarchia defenestrata (qui poco importa se per induzione), è rimasto solo il disprezzo per le regole, senza più poesia, senza più l’amore, che non sia amore per se stessi. La liberazione sessuale è finita in manette, quelle fetish, nel carcere della mercificazione. La democrazia diretta si esprime soprattutto nell’astensionismo.

Non era questo che sognavano i dreamers del Sessantotto. Quello che sognavano ce lo dice il film di Bertolucci del 2003. Non ce lo dice invece il film di Michele Placido, indeciso se raccontare il Sessantotto (contenuto manifesto) o se stesso, quando faceva il poliziotto e il suo Grande Sogno era diventare attore, e nient’altro (contenuto latente). Davanti agli occhi stralunati di Nicola (Riccardo Scamarcio), c’è in modo maldestro la poesia di Pasolini sulla battaglia di Valle Giulia, ma dietro, dentro, quello sguardo c’è solo l’incomprensione di un desiderio collettivo che non è il proprio. Quello che sogna Nicola è quello che sognava Placido. Quello che non interessa a Nicola è quello che non interessa a Placido: cioè, se Libero (Luca Argentero) è diventato terrorista, o se Laura (Jasmine Trinca) ha perduto la verginità. Non gli interessa, e si vede. Così come al regista non importa granché che il suo film sia distribuito dalla Medusa. Che doveva fare? Si è dovuto adeguare ai tempi, come il suo personaggio Nicola. Gli altri, quelli che hanno fatto il Sessantotto, invece, sognavano proprio il contrario, di non adeguarsi.



lunedì 21 settembre 2009

La Chiesa che vorrei

Sono stato a lungo indeciso se dare risalto alla notizia di cronaca locale anche sul blog. Vorrei evitare ad Andrea altri guai. Però prevale in me il bisogno di esprimergli solidarietà e vicinanza, ma non solo...

Non so se la sua sia una battaglia, più o meno consapevole, per contribuire a riformare la Chiesa dall'interno. Se lo fosse, condividerei. Ma non è questo il punto che m'interessa. Il punto è che don Andrea incarna il modello di Chiesa che vorrei. Una madre che ha braccia per accogliere tutti. Non una madre imparziale, però. Una madre che ha le sue preferenze, che non tratta i suoi figli tutti allo stesso modo. Come si dice, fa figli e figliastri. E considera figli quelli che non la riconoscono come madre, quelli che sono fragili, che da soli non ce la fanno, che per strada sono stati assaliti dai briganti. quelli che le guerre non le fanno, le subiscono.

Andrea incarna questo tipo di Chiesa, per questo è scomodo. La Chiesa di oggi è sempre meno così. Come ho avuto modo di scrivere in questo blog recentemente, Andrea non solo sa che cos'è il sacramento del matrimonio, ma lo sa anche spiegare ai suoi fedeli in maniera mirabile e teologicamente impeccabile. Perciò il suo gesto non può creare nessuna confusione in chi lo conosce. Chi non lo conosce può invece storcere il naso per quello che legge sui giornali, ma la colpa non è di Andrea, semmai dei cacciatori di notizie scandalistiche a tutti i costi. L'esilio in cui i vescovi lo hanno relegato è meta frequentatissima, mentre le chiese fiorentine sono semivuote. Su questo dovrebbe interrogarsi mons. Bettori! Ma non c'è pericolo che lo faccia, temo.

http://corrierefiorentino.corriere.it/firenze/notizie/cronaca/2009/18-settembre-2009/prete-celebra-nozze-ma-comune-rito-civile-1601784358419.shtml

giovedì 17 settembre 2009

Leggere per non dimenticare

Leggendo su Wikipedia la biografia di Marat (http://it.wikipedia.org/wiki/Jean-Paul_Marat), trovo un passaggio interessante che descrive il contenuto della sua opera più famosa: Le catene della schiavitù, del 1774:

L'instaurazione del dispotismo avviene dapprima insensibilmente: «con la scusa di innovare, i principi gettano le basi del loro iniquo dominio». Il tempio della libertà viene minato, non abbattuto brutalmente, cominciando con il «portare sordi attacchi ai diritti dei cittadini», avendo cura di nascondere l'odiosità dei provvedimenti, «alterando i fatti e dando bei nomi alle azioni più criminali». Apparentemente accettabili, queste prime riforme «nascondono conseguenze di cui dapprima non ci si avvede, ma di cui non si tarda ad approfittare, traendone i vantaggi previsti». Altre volte il principe, con il pretesto di risolvere crisi allarmanti da lui stesso preparate, «propone espedienti disastrosi che copre con il velo della necessità, dell'urgenza delle circostanze, dei tempi infausti. Egli vanta la purezza delle sue intenzioni, fa risuonare le grandi parole dell'amore del pubblico bene e proclama le attenzioni del suo amore paterno». Nessuno ha più la forza di opporsi, anche intuendo il «nascosto, sinistro disegno. E quando la trappola scatta, non c'è più il tempo di evitarla». Una volta che sia instaurato, il dispotismo si conserva opprimendo la libertà di stampa [...]

Il brano prosegue criticando la religione e l'esercito. Non che si debba essere d'accordo su tutto, ma voi non notate analogie...?

Interessante anche la conclusione:
I regimi dispotici non sono tuttavia invincibili. Se la gran massa dei cittadini non può vigilare sulla propria libertà, occorre che nello Stato vi siano uomini «che seguano gli intrighi del governo, che svelino i suoi progetti ambiziosi, che gettino l'allarme [...] che scuotano la nazione dal letargo [...] che si curino d'indicare colui sul quale deve cadere l'indignazione pubblica». Guai al Paese «in cui il prìncipe è potente e pieno d'iniziative, nel quale non vi siano né pubbliche discussioni, né effervescenza, né partiti»: queste occorrono, affinché «la libertà si veda uscire senza posa dai fuochi della sedizione»

mercoledì 16 settembre 2009

Abitare in centro...

...pare sia una filosofia. Stare al centro di Firenze significa per esempio avere la corsia di sorpasso perennemente occupata. Quella pedonale, intendo. Neanche la pioggia di oggi ferma i turisti. Ombrello, impermeabile e naso per aria. In via dei Calzaioli non si passa. Una coppia di vigilesse fa la ronda: casco bianco lungo in testa + cappuccio del K-Way. Hai visto mai che il casco non bastasse a tenere asciutti i capelli. Le zingare hanno preso spunto dagli artisti di strada: si sono messe un lenzuolo bianco addosso, che lascia scoperte solo le calze colorate e le scarpe con la suola alta di sughero. Hanno dipinto la faccia di bianco e se ne vanno in giro con una rosa in mano a chiedere l'elemosina. Per calarsi meglio nel personaggio, hanno abbandonato gli approcci tipici, sostituendo le locuzioni "dare qualcosa, buona fortuna, poverina signo'..." con dei finti baci molto rumorosi o dei versi tipo scretch di gatto infuriato. Qualcuno si spaventa e le manda dove le mandava anche prima che si mascherassero.

mercoledì 2 settembre 2009

Interessante...

Interessante l'articolo di Vittorio Messori sul Corriere di oggi, in merito alla vicenda Boffo. Praticamente, sostiene che le gerarchie ecclesiastiche avrebbero dovuto, a suo tempo, estromettere dall'incarico il direttore di Avvenire, e non affidargli più ruoli di prestigio in seno alla Chiesa, perché...chiacchierato. Una questione di prudenza.
Messori cita persino Plutarco che loda Cesare quando ripudia la moglie per sospetti, magari inconsistenti ma che ne danneggiano l'immagine: "Plutarco loda Cesare che ripudiò la mo­glie sulla base di sospetti inconsistenti, di­cendo che il prestigio del Capo di Roma non tollerava ombre, pur se inventate. La sentenza di Terni è contestabile? Tutto è davvero una «patacca»? Se sarà dimostra­to, come crediamo e speriamo, tireremo un sospiro di sollievo. Ma, intanto, un uomo immagine della Chiesa italiana ha campeggiato e campeggerà a lungo sulle prime pagine, sospettato dei gusti «diversi» la cui ombra grava oggi, più che mai, sugli ambienti clericali."
Insomma, se ho capito bene, stando a Messori, basta anche il solo sospetto dell'omosessualità per bandire dalla città della Chiesa una persona, pur valida.
Mi verrebbe da dire "agghiacciante", invece dico "interessante". Se passa il punto di vista di Messori, da oggi è sufficiente spargere una voce malevola su questo o quel prelato, e magari, perché no, sul principale, per toglierselo di mezzo. Morto mediaticamente un papa se ne fa un altro!
Ma non è tanto per questo che trovo interessante la tesi di Messori. Se il prestigio di Cesare non tollera ombre, benché infondate, cosa pensa Messori delle ombre fondate che si addensano sull'attuale Cesare?
O quelle sono ombre che non contano perché non hanno che fare con l'omossessualità?
Sospetto per sospetto, io sospetto che Messori, che è addentro alle cose di chiesa, sappia non sospetti. O sappia sul conto di Boffo più di quello che dice, fingendo di sospettare.

martedì 1 settembre 2009

Errata corrige

Ho scritto su questo blog che quelli del Pdl avrebbero dato dei "comunisti" a coloro che si sarebbero schierati contro lo scoop del Giornale di Feltri sul direttore dell'Avvenire, Dino Boffo.
Invece, mi ero sbagliato. È D'Avanzo che oggi, sulle colonne di Repubblica, dà a Feltri la patente dello stalinista!! Come commentatore politico faccio proprio pena, non ne azzecco una! Chiedo scusa ai lettori.
Certo però, sarà una patacca l'informativa che non è un'informativa ma una velina, cioè non una ballerina di Striscia (lo dico a favore dei miei alunni che possono leggere il blog), però il patteggiamento è vero!
Allora, quello che mi preoccupa non è che Boffo sia omosessuale, conclamato o meno. Magari lo fosse! Significherebbe che la Chiesa non discrimina gli omosessuali e gli consente anche di fare carriera! Quello che mi preoccupa è che sia un molestatore!
Allora, signor D'Avanzo, signori giornalisti italiani, scusate se mi permetto, anziché perdere tempo a insultare Feltri, a sbraitare sulla libertà di stampa (quello potete lasciarlo fare a me su questo blog) perché nessuno di voi ha pensato di alzare la cornetta, o muovere il cosiddetto e andare alla direzione dell'Avvenire e chiedere all'interessato come mai a suo tempo ha patteggiato una incriminazione per reato di molestie?
Circola voce che a molestare fosse stato un altro che ha usato il cellulare di Boffo, e che questi abbia accettato di patteggiare per coprire il reale colpevole. A parte che non sarebbe un gesto legalmente irreprensibile, perché nessuno va a chiederne conto ai diretti interessati?