lunedì 24 ottobre 2011

- preti + prati

Siccome le chiese si svuotano, alcuni preti pensano bene di fare le loro prediche in tv. Gli argomenti sono i più disparati.
In questo momento, ce n'è uno su Rai due chiamato a disquisire sulla morte del povero pilota Simoncelli.
Libero ognuno di esprimere la sua opinione, direte voi. Tanto più un prete da cui ci si aspettano parole di verità.
Verissimo.
Il punto è che spesso mi capita di sentire parole che mi lasciano perplesso. E la mia perplessità non riguarda la sfera delle opinioni (evidentemente, ognuno ha la sua), riguarda invece la teologia. Come in questo caso.
Qualcuno sosteneva che Simoncelli era una persona adulta che ha scelto e voluto praticare uno sport rischioso. Dunque, bisognava rispettare la sua libertà. A questo punto, il prete ha preso la parola per dire che non c'è libertà che valga una vita umana.
Ma, mi domando, non è proprio Gesù che ci ha insegnato che la vita umana ha valore proprio in quanto libera? Se Dio tenesse più alla vita umana che alla libertà, non ci sarebbe il male, non ci sarebbe il dolore, non ci sarebbe la morte. Tantomeno la morte in croce. O sbaglio?

martedì 18 ottobre 2011

Zanzotto

Ho letto poco fa della morte di Andrea Zanzotto. La notizia mi ha rattristato, non solo perché quando muore un poeta è una perdita per l'intera società, ma perché, avendogli dedicato la mia tesi di laurea, era entrato nella mia vita. Me lo ero reso in qualche modo intimo. Avevo studiato tutte le sue opere, ovviamente, ma soprattutto avevo avuto modo di leggere la sua corrispondenza. In particolare, quella con l'allora direttore dell'Approdo letterario e radiofonico, il poeta Carlo Betocchi. Attraverso le lettere, avevo conosciuto due persone perbene, prima ancora che due poeti eccelsi, degni della migliore letteratura italiana.
C'è un aneddoto che mi rende cara la figura di Zanzotto: gli scrissi per chiedergli l'autorizzazione a pubblicare alcune lettere nella tesi. Vi erano in esse riferimenti alla sua vita privata, e non volevo essere indiscreto. Un giorno, mentre mi trovavo in cucina a prepararmi la cena, un mio compagno di appartamento mi passò una telefonata, dicendomi che si trattava di Zanzotto. Andai all'apparecchio, non prima di aver mandato a quel paese il mio amico, pensando a uno scherzo. Invece, già dal "pronto" con la forte inflessione veneta, non ho più avuto dubbi: il poeta che stavo studiando mi aveva telefonato a casa!
Ricordo solo la mia emozione e nessuna parola in particolare. Fu gentile. Mi chiese della tesi e della professoressa che mi faceva da relatrice. Mi diede l'autorizzazione, e addirittura sembrava più lui grato a me che io a lui!
Ecco, quello che mi porto dentro di Zanzotto è quella umiltà, gentilezza, educazione d'altri tempi, unite per contro all'estrema modernità e innovazione dei suoi versi.

domenica 16 ottobre 2011

Indignati

Ieri, in tutto il mondo, hanno manifestato i cosiddetti indignati. Solo in Italia la manifestazione è sfociata in violenza, con il solito corollario di vetrine spaccate, cassonetti bruciati, feriti, ecc.
Perché?!
Sono gli italiani più violenti degli altri?
Come al solito, l'occasione è buona perché la destra dica che quelli di sinistra sono dei violenti che sfasciano le città, e quelli di sinistra dicano che si è trattato di infiltrati di destra o addirittura dello Stato (Cossiga docet).
È un discorso vecchio di 50 anni. Si diceva la stessa cosa nelle manifestazioni dal '68 in poi.
Perché siamo ancora fermi lì?
Perché in Spagna, a Madrid, dove il movimento degli indignati è nato, si sono ritrovate in piazza centinaia di migliaia di persone, che hanno ballato, cantato, urlato i loro slogan, senza il benché minimo incidente? Perché a New York la gente ha sfilato pacificamente per le strade, armata solo di cartelli colorati?
Perché da noi no?
Lasciando perdere le contrapposizioni, appare evidente a tutti che le violenze di ieri a Roma hanno danneggiato soprattutto le ragioni del movimento (sulle quali nessuno ha da dire nulla, da Obama a Draghi, e ci mancherebbe!).
Dunque, perché non sotterrare l'ascia di guerra e fare in modo, alla prossima occasione, che gli organizzatori delle grandi manifestazioni in Italia collaborino preventivamente con le forze dell'ordine perché la manifestazione sia tutelata e riesca nel migliore dei modi? Sarebbe nell'interesse di tutti. Non si può pretendere che i cosiddetti blakbloc siano fermati dagli stessi manifestanti (che li dovrebbero isolare: ma vai e ragiona con cento energumeni incappucciati e armati), né che se ne occupino le sole forze dell'ordine (vai e pescali una volta che si sono mischiati agli altri manifestanti).
Insomma, bisognerebbe uscire dall'infantile tentazione di scaricarsi le responsabilità (È colpa tua! No, tua!), e cercare di aiutarsi a vicenda, perché anche da noi si possa esercitare il diritto costituzionale di manifestare. Perché di questo alla fine si tratta: ieri, ancora una volta, l'Italia ha fatto capire al mondo di essere una democrazia malata. Bisogna prenderne atto. Per un po' di tempo, nelle nostre città, i manifestanti vanno scortati come si fa con i tifosi che vengono accompagnati allo stadio: cordoni di polizia li devono separare dagli altri. Perché sia fattibile, è necessario che siano gli stessi manifestanti a volerlo, collaborando a creare i "cordoni", in un clima di reciproco aiuto con chi è preposto alla difesa dei cittadini.
Fossi io fra gli organizzatori di queste manifestazioni, mi preoccuperei di andare per tempo da prefetto e questore per mettermi a disposizione e allo stesso tempo per pretendere che i violenti fossero individuati e neutralizzati prima di poter fare danni, non dopo che hanno messo a ferro e fuoco quella piazza che è, e deve rimanere, del popolo.

lunedì 10 ottobre 2011

A scuola

1)
Preside:
- Di nuovo tu? Ma non ti vergogni di farti accompagnare sempre in presidenza?

Bambino:
- No.

2)
Professore:
- Allora ragazzi... Nella Costituzione sono scritti i nostri diritti, le nostre libertà. Per esempio, la libertà di pensiero, di stampa, il divieto di censura... Aprite la Costituzione all'articolo 21... Saltate pure l'introduzione, gli articoli sono dopo in numero progressivo...

Bambino (mano alzata e sguardo trionfante):
- Professore? La mi' mamma ha preso questa edizione, con l'introduzione di Marco Travaglio, ma come vede l'ha tagliata tutta con le forbici. Quindi ho subito gli articoli!

Professore:
- Ecco, appunto.

domenica 9 ottobre 2011

Carnage - recensione

Manhattan, parco pubblico. Sullo sfondo lo skyline amputato, le torri-totem delle nostre certezze crollate, l’assenza. Due alberi inquadrano la scena: un gruppo di ragazzini in lontananza si muove in avanti, verso il proscenio. Li vediamo approssimarsi a noi con un movimento lento e inesorabile: acido come un rigurgito di bile, perturbante come una colpa rimossa che riemerge alla coscienza. Il dover essere e l’essere. Non possiamo non vedere. Quei bambini stanno giocando, dovrebbero giocare. Ma, ecco: uno spintone, un altro, un altro ancora. Sono ragazzi, succede. Poi, però, l’attimo che precipita: il ramo stretto nella mano adolescente diventa la clava primordiale. Un fendente colpisce in pieno viso il rivale. Volano gli incisivi rotti. La violenza ha tracimato, travolgendo due massimi tabù della cultura occidentale: la civile convivenza e l’immagine.

Bisogna ricomporre. Il diritto deve essere riaffermato. Ripristinare la legalità, la pace, l’armonia è un compito che spetta ai sacri custodi della comunità: gli adulti-giudici, i genitori. Il rito viene officiato nella dimora borghese dei coniugi Longstreet, Penelope e Michael, parte lesa, alla presenza della madre e del padre dell’aggressore, i Cowen, Nancy e Alan. Non dovrebbe volerci molto: è sufficiente scrivere, leggere, dialogare. In definitiva, è una questione di linguaggio. Bisogna parlare, cominciando con l’ammettere la nudità della colpa, la vergogna di sapersi nudi, perché poi il mantello misericordioso del perdono le ricopra.

Comunicare, dunque. Ascoltare e argomentare. Questi sono gli antidoti all’istinto brutale. La cultura eleva l’uomo dall’animale. E sia i Longstreet che i Cowen possono dirsi persone colte. Nancy è un broker finanziario, volubile come i mercati, ma stranamente debole di stomaco per reggerne i flutti. Alan è un legale, cinico e dipendente dal BlackBerry. Michael non è un intellettuale, ma è un piccolo imprenditore che conosce il suo mestiere. Penelope è addirittura una scrittrice, anche se di un solo romanzo; è impegnata nel sociale ed ama l’arte. Soprattutto, Oskar Kokoschka.

Ma il pittore e drammaturgo austriaco è quanto di più lontano ci possa essere da Penelope. Lei è rigida, moralista, inchiodata ai dogmi del suo Super-io. Lui è stato anarchico, libertario, ha dipinto l’inconscio freudiano; ha messo in scena la contrapposizione archetipica e drammatica tra uomo e donna, per ricomporla nella sintesi dell’Uomo Nuovo; ha destrutturato il linguaggio pittorico per rappresentare il caos della vita moderna, in cui non c’è più un sistema filosofico strutturale e normativo ma un movimento caotico di atomi-individui, tanto più vitale ed autentico quanto più libero nel suo esistere. Penelope vive il suo matrimonio nelle quattro mura newyorkesi, Kokoschka ha fatto vivere la sua sposa nel vento.

E, come nei quadri di Kokoschka i segni colorati si emancipano dalla prospettiva, in un movimento ora ripido ora piano, prima vorticoso poi tranquillo, sereno e agitato, tenero e ribelle, ma sempre vitale, così i quattro sacerdoti dell’ortodossia sociale (Nancy, Alan, Penelope e Michael), si affrancano subito dal dover essere coppie felici, solide e solidali, complici e in sintonia, perbene. L’armonia del loro quartetto si scompone e si ricompone continuamente, con nuove strategie e nuove alleanze. Non arrivando però mai alla sintesi della comprensione reciproca, sia a livello individuale che di coppia. L’unisono è solo episodico e accidentale. È musica da camera, non orchestrale. E la camera sono le quattro mura domestiche dei Longstreet, dove gli specchi fanno da cassa di risonanza, riflettendo il suono senza che questo trovi una via d’uscita. Le parole sono note suonate in un continuo crescendo. Il circuito sonoro è chiuso come dalle cuffie di un ipod.

Come in un Kammerspiel di Murnau, la macchina da presa di Polański riprende questo carcere da vicino, rendendoci spettatori dentro la scena, senza esserne protagonisti. Possiamo vedere le smorfie del viso, le sfumature ironiche negli sguardi, la verità dei volti sotto le maschere. Primissimi piani, dettagli, ci rendono ricercatori con l’occhio sulla lente del microscopio. Nel vetrino c’è la violenza degli adulti. Non quella dei bambini, destinata a ricomporsi naturalmente.

È, in definitiva, l’American dream, che per Polański rappresenta l’incubo ancora attuale del carcere, per un tabù violato nel lontano 1977.

giovedì 6 ottobre 2011

Ammazza blog

Ad oggi, pare che la norma ammazza blog sia destinata ad essere emendata. L'obbligo di rettifica rimarrà solo per le testate giornalistiche online.
Meglio così.
Certo che, con tutto quello che c'è da fare per il nostro Paese che va a rotoli, vedere il Parlamento discutere di norme che limitano il diritto di espressione, intaccando di fatto la Costituzione, è sconfortante.
Quand'è che ci libereremo di questa gente?
Solo ora comincio a capire il perché del diluvio universale...
Vedere wikipedia oscurata è qualcosa che fa male al cuore. Mi domando perché continuiamo a subire passivamente il restringimento dei nostri spazi di libertà. Ci sarà un modo non-violento e democratico per difendere i nostri diritti! O no?