Il gigante e la bambina sotto il sole contro il vento in un giorno senza tempo camminavano tra i sassi camminavano tra i sassi camminavano tra i sass. Il gigante è un giardiniere la bambina è come un fiore che gli stringe forte il cuore con le tenere radici con le tenere radici con le tenere radici. E la mano del gigante su quel petto di creatura scioglie tutta la paura è un rifugio di speranza è un rifugio di speranza è un rifugio di speranza. Del gigante e la bambina si è saputo nel villaggio e la rabbia da' il coraggio di salire fino al bosco di salire fino al bosco di salire fino al bosco. Il gigante e la bambina li han trovati addormentati falco e passero abbracciati come figli del Signore come figli del Signore come figli del Signore. Il gigante adesso è in piedi con la sua spada d'amore e piangendo taglia il fiore prima che sia calpestato prima che sia calpestato prima che sia calpestato. Camminavano tra i sassi sotto il sole contro il vento in un giorno senza tempo il gigante e la bambina il gigante e la bambina il gigante e la bambina il gigante e la bambina il gigante e la bambina il gigante e la bambina il gigante e la bambina il gigante e la bambina
domenica 31 maggio 2009
venerdì 29 maggio 2009
Vota Li Avete!
La tipografia ha chiesto al candidato Pdl che nomi mettere nei volantini. Risposta: "Li avete". E loro naturalmente hanno eseguito.
Come cambiano i sogni
martedì 26 maggio 2009
Occhio al link!
articolo ventuno
lunedì 25 maggio 2009
Nota politica ... cioè, volevo dire, poetica
mente sporca più dell'Africa,
non dire "lusingata, presi
dente"!
No, è mia (e sia!)
la letizia di averti
conosciuta!
giovedì 21 maggio 2009
Guccini aggiornamento download
Un branco di gazzelle e bufali corre. Poi, d'improvviso, s'arresta.
Il branco s'arresta, dicevo, in prossimità dei bagni. Capannello, voci confuse.
- Che succede qua, eh?
martedì 19 maggio 2009
Dove siamo andati a finire, in questi ultimi 30 anni?
...
Chi c'è lì? Cheppalle, il solito dibattito! Fai vedere? Come si chiama quello? Ma sì, dài! È quel politico...non è dei radicali?...No, aspetta...Ah, jà! Claudio Fava. Ah, ma c'è anche Sofri! Beh, allora quasi quasi mi avvicino. Anche Deaglio? Resto.
Metti un pomeriggio in primavera, ad ascoltare i rivoluzionari, trent'anni dopo.
Angeli e demoni - recensione
Questo secondo caso pertiene al campo della letteratura di fantascienza, in particolare del fantasy, ma non è il genere a cui fa riferimento Angeli e demoni, che si ambienta nel mondo reale e quindi ha l’obbligo di rimanere entro i paletti della verosimiglianza. Il buono spunto iniziale del romanzo, incentrato sulle ricerche scientifiche nel campo dell’antimateria, avrebbe dovuto garantire la patente di scientificità che Brown ricerca sempre nei suoi scritti. Ma non è stato sufficiente. Man mano che ci s’inoltra nella lettura di Angeli e demoni anche il lettore meno esperto di cose di scienza ha l’impressione che l’autore non padroneggi bene la materia (…dell’antimateria). La sensazione acquista più corpo quando la vicenda si sposta nei corridoi più segreti del Vaticano, che Brown immagina ma evidentemente non conosce. In particolare, è il personaggio del camerlengo a suscitare le perplessità maggiori. Più cresce la sua importanza nell’intreccio più la sua inverosimiglianza mina la credibilità della storia, fino al punto da distruggere la sospensione della incredulità e spingere il lettore a sorridere proprio nei momenti in cui dovrebbe invece sentire la tensione, il thrilling. Peccato mortale per un giallo. Da questo punto di vista, Il codice da Vinci, pur conservando qualche difetto, è sicuramente un libro più riuscito e il successo planetario che ha ottenuto è giustificato. I lettori sono meno ingenui di quanto si creda.
A dire il vero, però, questa colpa del regista ha un attenuante nel fatto che non gli è stato consentito di girare all’interno della Basilica di San Pietro. Il Vaticano ha ritenuto che la storia mostrasse uno scarso rispetto del sentimento religioso. E forse erano ancora vivi gli strascichi delle polemiche sul Codice da Vinci. Nella conferenza stampa di presentazione del film, Ron Howard si è lamentato di questo ostruzionismo che ha creato non poche difficoltà alla realizzazione del film. Per certi aspetti la posizione del Vaticano è comprensibile, ma forse le gerarchie ecclesiastiche avrebbero potuto cogliere l’occasione per aprire le porte al regista e allo scrittore, che sono pur sempre persone rispettabili e di cultura, per mostrare loro come vanno realmente le cose all’interno delle mura vaticane. Avrebbero potuto far loro conoscere il vero camerlengo. Farli parlare. Mettere in contatto, in dialogo. Questo avrebbe probabilmente aiutato tanto il regista quanto lo scrittore a realizzare un’opera migliore perché più verosimile, e magari meno irriverente. Chiudere le porte, rifiutarsi di accogliere, non è mai una buona cosa, tantomeno se le porte sono quelle della Chiesa. D’altronde non ci può essere blasfemia in un’opera che non parla di Dio ma della Chiesa. E la presentazione della stessa come un’istituzione di potere può essere sbagliata, ma si può capire perché è funzionale a un thriller, che si occupa di morti violente, non di carità e missioni umanitarie. Infine, l’immagine della Chiesa come potere oscuro, chiuso in se stesso, autoreferenziale, si sarebbe potuta confutare proprio con un atteggiamento di collaborazione e di apertura verso quelle che sono pur sempre opere di fantasia, che hanno come unico scopo l’evasione, e che perciò lasciano il tempo che trovano.
domenica 17 maggio 2009
Italia decadente
giovedì 14 maggio 2009
Geni della lampada
http://www.repubblica.it/2009/03/sezioni/scuola_e_universita/servizi/scuola-2009-10/esami-medie/esami-medie.html
mercoledì 13 maggio 2009
Nuova incursione della sorella nel blog del fratello
C’era una volta… “Un burattino di legno!” diranno i nostri lettori… Beh, quasi. Un burattino di legno con gli occhi a mandorla. Un po’ diverso dai suoi simili, quelli tanto tranquilli, silenziosi, che dormono tutti i giorni di tutto l’anno nei banchi in fondo alla classe.
Lui no, lui si faceva sentire, eccome! Disturbava in tutte le lingue, nella sua, nella nostra, nella lingua veneta. Disturbava in maniere sempre più creative, geniali quasi, come quando nel laboratorio di L2 ha fatto coriandoli dei materiali didattici e li ha gettati gioiosamente al vento. Democratico nell’andare male in tutte le materie, nessuna esclusa, persino in matematica dove (in genere) i suoi connazionali stanno al passo con gli altri. Democratico anche nelle alleanze (a delinquere) con compagni di ogni nazionalità (marocchini, italiani, kossovari ecc…ecc…). Egualmente sprezzante per ogni autorità costituita: il Preside, gli insegnanti, gli psicologi, il padre (severissimo) e la madre (esausta e rassegnata al peggio).
Insomma: un disastro totale, che non si sa da dove iniziare a prenderlo e si ha la tentazione di non iniziare nemmeno.
Giusto per provare gli si manda una mediatrice: chissà che potendo parlare liberamente, nella sua lingua madre, riusciamo a cavargli qualcosa.
La mediatrice, semplicemente, domanda: “ma perché ti comporti così?”
E lui, improvvisamente serissimo e lucido, risponde: “perché tanto io non ho speranza”.
Credo che non ci sia molto da aggiungere.
Ovviamente queste storie, il più delle volte, non prevedono il lieto fine.
Immigrati. La voce della Chiesa
Saviano sui migranti
martedì 12 maggio 2009
Respingimenti
Che cosa votiamo al referendum sulla legge elettorale?
lunedì 11 maggio 2009
Sorella dixit e fratello sottoscrivit
A quelli che non urlano, non minacciano, non si sentono minacciati, lavorano ogni giorno a testa bassa e non finiscono sui giornali.
Un pensiero, allora, in ordine rigorosamente sparso:
- a chi fa colletta per pagare un biglietto di ritorno
- a chi ci ha aperto le porte di casa sua, quando non sapevamo dove far dormire
- a chi ha perso la parrocchia, perché ha fatto dormire
- ai piccoli e grandi benefattori, anonimi e non
- alle ginecologhe che visitano in pausa pranzo
- agli insegnanti preoccupati, che vogliono capire
- a chi si è rotta la schiena per troppo lavoro e prepara the alla menta
- al popolo di Giavera, che lavora un anno per fare festa tre giorni
- e agli artisti che a Giavera vengono, gratis, e pagano l’ingresso per sé, per la moglie, per gli amici.
Chapeau.
Non c'è fine al peggio
sabato 9 maggio 2009
la (dis)par condicio
venerdì 8 maggio 2009
Come un uomo sulla terra
Ho visto questo film. L'ho proiettato a scuola. Lo consiglio a tutti. Ne ho scritto un pezzo che non so se mi verrà pubblicato, ma spero di sì. In ogni caso lo metto sul blog.
È del 2oo8, ma non è uscito nelle sale. Per vederlo si può solo consultare il calendario delle proiezioni sul sito http://comeunuomosullaterra.blogspot.com/ S’intitola Come un uomo sulla Terra. Il regista è Andrea Segre. In termine tecnico si tratta di un docu-film, brutta parola per indicare un’opera che è qualcosa di più di un documentario e (forse) qualcosa di meno di un film. L’avverbio dubitativo è d’obbligo se anche un maestro del cinema come Ermanno Olmi ha scelto recentemente di utilizzare questo linguaggio. Del film ha il montaggio cinematografico, i personaggi con le loro storie intrecciate, intercomunicanti; del documentario ha il fatto che non ci sono attori, perché quei personaggi sono in realtà persone che non recitano ma raccontano la loro vita. Lo fanno con un certo pudore, qualcuno con gli occhi lucidi, qualcun altro con la mandibola contratta, perché non è una bella vita la loro. Vorrebbero dimenticare, cancellare tutto ciò che è stato, ma sentono il dovere di vincere ancora una volta il dolore, riaprendo ferite non ancora rimarginate del tutto, se mai lo saranno, per testimoniare. Come i reduci dai campi di sterminio nazista non molti anni fa.
Dag, che assume il compito del narratore-intervistatore, dice che la storia potrebbe iniziare circa cento anni fa, quando l’Italia cercò di conquistare la Libia, “e i nostri bisnonni s’incontrarono”. Ma poi preferisce non partire da così lontano, anche perché a tornare indietro bisognerebbe ripercorrere tutto il colonialismo europeo, dalla scoperta dell’America in poi. Meglio allora rimanere sull’oggi. Prima di cominciare le interviste, Dag ci tiene a dare conto di sé: ha lasciato l’Etiopia quando, studente di Giurisprudenza, ha capito che nel suo Paese la corruzione non lasciava spazio alla giustizia. È scappato da Addis Abeba senza neanche salutare suo padre, per paura che lo fermasse. Senait, invece, è scappata a causa della guerra tra Eritrea ed Etiopia. Il padre venne espulso, lei rimase sola con la mamma, e quando questa morì decise di lasciare il Paese. Anche Mimi è scappato, pur avendo una moglie e una figlia di sei anni che lo abbracciano e gli sorridono da una fotografia sgualcita. Ha gli occhi rossi e quasi urla quando dice che l’ha dovuto fare. È fuggito perché altrimenti l’avrebbero ammazzato. A Tighist, invece, avevano detto che in Libia avrebbe guadagnato abbastanza per mandare soldi alla sua famiglia. C’era bisogno, perciò è partita.
Non c’è romanzo né poesia nel loro addio ai monti. C’è invece l’inizio del calvario nel loro viaggio in direzione della Libia, poi, chissà, dell’Italia. È Negga, un ragazzo (sono tutti giovanissimi), il primo a raccontare di quella jeep in cui erano ammassati, stretti come sardine, senza aver mangiato, senza acqua nel deserto, senza la possibilità di chiedere una sosta, almeno per andare in bagno o vomitare. Per quello bisognava arrangiarsi con una mezza bottiglia di plastica. Sotto la minaccia del coltello, nessuno aveva il coraggio di lamentarsi. Per Mimi, invece, non era un coltello ma la sciabola che l’autista menava alla cieca, sporgendo la mano dal finestrino in direzione del tetto dove erano stipati i passeggeri, rei di non assecondare come dovuto il veicolo in curva per evitare che cappottasse. E in discesa dovevano scendere, per poi rincorrere di nuovo la jeep e saltare a bordo. Pena rimanere nel deserto, da soli. Come è successo a Fikirte, che aveva pagato duecentocinquanta dollari per quel viaggio, eppure, lì, nel deserto, è stata lasciata per quattordici giorni, prima che i suoi “intermediari” si rifacessero vivi con un altro carico di profughi, provenienti dal Darfur. In tutto quarantacinque persone in una sola macchina, una Land Rover. Poi, arrivati in Libia, per raggiungere Bengasi bisognava pagare ancora. In denaro… o in natura. Fikirte aveva finito i soldi. Porta ancora i segni delle corde che l’hanno stretta per nove giorni, fino ad otturarle le vene e le arterie delle braccia, ancora livide a distanza di anni.
Fin qui le violenze dei trafficanti. Poi quelle della polizia libica. John quasi ride quando Dag gli chiede se l’hanno portato in tribunale. Non ci sono tribunali in Libia. C’è la prigione, a tempo indeterminato. E in prigione può succedere che in un giorno solo arrivano centoquaranta persone, come è successo a Dawit, che non aveva neanche lo spazio per distendere le gambe. La prigione dove Tsegaye racconta che i poliziotti li registravano a schiaffoni, che erano sporchi e gli veniva data solo una bottiglia d’acqua a testa per ventiquattro ore, con cui dovevano fare tutto: lavarsi, bere e pulirsi dopo i bisogni. Le prigioni dove Tighist ha dovuto buttare la croce che aveva al collo, avrebbe preferito morire ma ha dovuto farlo, facendosi coraggio col pensiero che tanto tutti loro rimanevano cristiani anche se li avessero sbattuti al muro. Ma poi non riusciva a non urlare quando vedeva gli uomini picchiati sulle piante dei piedi e in bocca fino a perdere tutti i denti. E per le donne era anche peggio, come quella che era incinta e il poliziotto le premeva la pancia con un bastone e le diceva “Hai in pancia un ebreo e vai in Italia e poi in Israele per combattere gli arabi”.
Uscire dalla prigione non significa libertà. Significa un container con qualche piccola feritoia, per consentire di respirare a un centinaio di persone chiuse dentro. Direzione Kufrah, sempre in Libia ma verso l’interno, distante da quel mare che separa l’Africa dall’Italia. Un altro viaggio, però indietro. Dopo mesi, per qualcuno anni di carcere. Un viaggio di un giorno e mezzo, di nuovo attraverso il deserto. Senza soste per il bagno, ovviamente. Chi non resiste, può farsela addosso, in piedi perché non c’è modo di sedersi. Senza bere, qualcuno non ce la fa. Qualcuno sviene, qualcuno muore. Qualcuno impazzisce. Si dice che questi container i libici li abbiano avuti dall’Italia, in regalo. Insieme a gommoni, fuoristrada, pullman, coperte di lana, materassi, sacchi per i cadaveri. Ventitré milioni nella finanziaria del 2004, venti nel 2005. Nel 2007 l’Eni si accorda con lo Stato libico per la produzione di gas in Libia per 28 miliardi di dollari in dieci anni. Questi dati scorrono sui primi piani di Fikirte, di Tighist. Rientrano nella politica di cooperazione tra i due Paesi. L’Italia (sia i governi di centrodestra che di centrosinistra) ha finanziato la Libia in cambio di un aiuto nella limitazione dei flussi migratori. Così, per l’Italia a Kufrah c’è uno dei centri per stranieri costruiti grazie al finanziamento italiano, per Dag e gli altri c’è la prigione dove sono stati torturati. Si chiedono com’è possibile che i vertici politici italiani ed europei non lo sappiano. Uno di loro si meraviglia che i giornalisti italiani non vadano a controllare: non sono forse liberi i giornalisti in Italia?
Dopo Kufrah, per chi sopravvive, c’è l’espulsione. Ma è solo una tragica messa in scena. La polizia libica, che dovrebbe scortarli fuori dal Paese, li vende di nuovo agli “intermediari”. Per trenta dinari (17 euro). Così ricomincia la giostra dell’orrore. Per tornare a Tripoli, gli “intermediari” vogliono altri soldi. Avanti e indietro. Qualcuno, come John è stato venduto fino a sei, sette volte, prima di riuscire a imbarcarsi per l’Italia. Ma il viaggio verso il nostro Paese è un’altra storia, la storia della Pinar, per esempio. La permanenza, un’altra ancora: la racconta un bell’articolo del National Geographic di aprile. Ed è una storia di schiavitù, ambientata nelle campagne calabresi, pugliesi, siciliane.
Alla fine del film, Dag dice che non gli piacciono i gatti. Quando era piccolo ha visto la sua gatta che uccideva i più deboli dei suoi cuccioli e lasciava vivere i più forti. Secondo Dag, l’Italia fa così con gli immigrati: se riescono ad arrivare gli concede il diritto d’asilo, ma i più deboli li lascia alla Libia.
Chi avrà la fortuna di vedere Come un uomo sulla Terra si chieda se questi sono uomini, che vengono deportati, torturati, venduti, uccisi. E poi torni a casa, rilegga l’articolo tre e l’articolo dieci della nostra Costituzione e si chieda se siamo cittadini italiani, noi che vediamo in Dag, Senait, Mimi, Tighist, Negga, Fikirte, John solo dei clandestini irregolari. Legga l’articolo quattordici della Dichiarazione universale dei diritti umani e si chieda se siamo uomini. Infine ripensi a queste persone vendute per trenta dinari e si chieda se siamo cristiani.
Cancellati gli articoli 3 e 10 della Costituzione
Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali.
È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese.
martedì 5 maggio 2009
Beautiful 3 e poi mi taccio
Chissà se Veronica andrà dal pm Santoro...