
Ci sono diversi motivi per andarlo a vedere. Il primo è di ordine estetico. Persepolis è un bel film di animazione. La sua bellezza consiste, se non altro, nell’essere diverso rispetto alle mega produzioni disneyane o della Warner Bros: digitali, tridimensionali, con effetti speciali senza soluzione di continuità. La bidimensionalità di Persepolis restituisce all’animazione cinematografica una qualità artistica artigianale, che ha fatto giustamente pensare alle origini del cinema, alle coreferenze di Méliès. Il prevalere del bianco e nero esalta la portata emotiva del colore, ad esempio nel rosso del cappotto della protagonista, correlativo oggettivo del suo carattere, così vitale a dispetto delle situazioni difficili in cui si trova a vivere.
Il secondo motivo è di ordine contenutistico. Persepolis racconta la vicenda autobiografica di una ragazza iraniana, Marjane Satrapi, dagli anni della rivoluzione islamica ai giorni nostri. In realtà, grazie a opportuni flashback, Persepolis fa iniziare la storia dell’Iran fin dai tempi del colpo di stato dello Scià, nel quale erroneamente il popolo aveva identificato un altro Atatürk, capace di riformare lo Stato in una moderna democrazia laica. La delusione per la successiva manifesta subalternità dello Scià (e, soprattutto, del figlio, succedutogli sul trono) alle potenze occidentali e ai loro interessi economici per il petrolio della regione, porta gli iraniani a sposare la causa della rivoluzione, nata sotto gli auspici palingenetici del marxismo e finita nell’oscurantismo della teocrazia islamica. Marjane Satrapi vede questi passaggi storici del suo Paese con gli occhi innocenti della bambina che era in quegl’anni. E i bambini hanno il “difetto” di dire la verità, perché non conoscono ancora l’arte della mistificazione, della dialettica simulazione/dissimulazione, dell’ipocrisia, propria del linguaggio degli adulti in generale e della politica in particolare (di certi adulti e di certa politica, naturalmente). Ora, in realtà, questo è vero sino a un certo punto. Il film inizia con la protagonista ormai ragazza che, dall’aeroporto europeo in cui si trova, ricorda la sua infanzia in Iran; e così il racconto della piccola Marjane è inserito in un lungo flashback. Perciò, ogni tanto, affiora sopra le righe il punto di vista della Marjane adulta, in particolare della Marjane che ha vissuto a Parigi e studiato in un istituto francese quanto basta per contaminare la sua cultura con alcuni cliché di quella illuministica. Tuttavia, non è questo che conta. L’importante è che la ricostruzione della storia iraniana consente allo spettatore occidentale di farsi un’idea della sofferenza di un popolo, che ancora oggi perdura. Rimettere al centro il popolo iraniano è importante per capire la complessità di una cultura, che nella sua distanza dalla nostra ha però anche molti elementi in comune, e la stessa dignità, che viene offesa e non rappresentata dal regime che lo governa. L’appellativo di “canaglia”, attribuito dall’attuale amministrazione americana all’Iran, oltre che essere odioso, appare a chi guarda questo film ingiusto per la facilità con cui può e viene superficialmente trasferito dall’opinione pubblica occidentale alle persone che vivono in quel Paese, che così soffrono due volte. Per questo è significativo che la vicenda di Marjane Satrapi, il suo sentirsi apolide tanto in Europa quanto in Iran, sia la parabola della difficoltà di assimilazione della cultura occidentale della ragazza iraniana e, alla fine, il ritrovato orgoglio della propria identità. Il messaggio che emerge è che nel rispetto delle diverse identità culturali sta la ricchezza e la pace tra i popoli. A questo si aggiunge, ovviamente, il tema centrale della condizione della donna in Iran, che però, anche in questo caso, è presentato con più sfumature rispetto ai nostri luoghi comuni.



Persepolis è un film bello, importante, che fa ridere e fa piangere come la vita. Che fa riflettere.
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