
Di morte si parla nel film, dalla prima sequenza all’ultima. E l’ultima, richiamando la prima, sigilla il cerchio tombale del discorso. Una morte immaginata, certo, ma non immaginaria. Tutt’altro, reale. Tangibile. Esperibile dallo spettatore per novantacinque minuti. Una morte non passata, presente.
Munis, Zarin, Fakhiri, e Faezeh, sono quattro donne iraniane che vivono questa morte. Munis è quella che si fa carico per tutte di immaginarla e di raccontarla. Il suo racconto segue gli stilemi retorici della prosa surreale, onirica. Ma non si tratta di un sogno. Piuttosto, un incubo, declinato al passato; in quanto storico, già successo, ma che la morte iscrive nel circolo dell’eterno ritorno. Munis riesce sì a vivere la propria passione politica, liberandosi dell’educazione repressiva del fratello, ma solo nell’istante della morte. Come un cigno, la libertà canta la sua struggente canzone solo un attimo prima della fine. Zarin, giovane prostituta, vive invece la sua morte nell’anoressia, l’altra faccia dello specchio in cui è riflessa la bulimia onnivora degli uomini. Come Alice, Zarin attraversa questo specchio, ma quello che trova nel bosco non sono i fiori parlanti. Semmai quelli del ruscello preraffaellita di Ophelia, dove Zarin galleggia, ma per poco. Annegherà insieme all’amore che nessuno le ha mai saputo dare. Anche Fakhiri sa cosa significa la delusione d’amore. La sua libertà è chiusa tra parentesi: da un marito che la opprime a un amante che non la corrisponde. Faezeh, infine, sacrificherebbe la propria libertà per sposare l’uomo che ama, ma non la propria dignità in un’unione poligamica.

La libertà, raccontata in profondità di campo, è una strada da percorrere. Tortuosa, a tratti labirintica. In cui ci si perde, si muore, o si è costretti a percorrerla a ritroso, senza mai arrivare in fondo. La profondità di campo coinvolge lo spettatore, costringendolo come accade nella realtà a partecipare alla visione, selezionando, fra le tante co

Da qui anche il ricorso continuo ai prim

C’è molta morte, dunque. Ma Donne senza uomini non è un film disperato. Né tantomeno nichilista. La prosa poetica, la meravigliosa fotografia, in fin dei conti la stessa sostanza del film in quanto opera d’arte, frutto di un percorso creativo, veicolano la speranza. Lo spettatore d’essay, che andrà al cinema ben disposto a leggere una poesia, uscirà dalla sala soddisfatto e con qualche riflessione in più da fare. Lo spettatore tornato stanco dal lavoro, rischia invece di trovarlo un po’ noioso.
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