giovedì 30 ottobre 2008

martedì 28 ottobre 2008

Vicky Cristina Barcelona

Woody Allen non fa più ridere. Non perché non ne abbia ancora le capacità, naturalmente. Semplicemente, a settantatre anni non ha più voglia di compiacere il pubblico con gag esilaranti o battute alla Groucho Marx. Film come Prendi i soldi e scappa, o Il dittatore dello Stato libero di Bananas sono destinati a rimanere nella memoria e nelle videoteche private degli aficionados. Da tempo, ormai, il regista newyorkese sforna un film all’anno, con una serialità che non è quella di una catena di montaggio ma di una brava nonna che prepara i suoi biscotti ai nipotini e, impastandoli con l’esperienza, riesce sempre a farli venire buoni. La nonna si è trasferita in Europa, non per vocazione, ma perché a una certa età ci si adatta ad andare dove ti porta la vita. Non si hanno più le forze per fare la guerra, per risalire la corrente. Meglio lasciarsi trasportare. E anche in Europa ci sono i forni per i biscotti. Fuor di metafora, Woody Allen ha abbandonato la sua New York, girando gli ultimi film a Londra e ora a Barcellona solo perché ha trovato in queste città chi glieli ha finanziati. Se il sindaco Alemanno gli mettesse a disposizione Cinecittà e un po’ di quattrini, girerebbe tranquillamente anche a Roma.
Vicky Cristina Barcelona: il nome delle due protagoniste e quello della città in cui si recano per trascorrere le vacanze. Perché questo titolo? Perché il film parla di Vicky, di Cristina e di Barcellona! Questa la risposta candida del regista. A settantatre anni non si cercano più spiegazioni complicate da dare alla vita, forse perché non si ha più niente da chiederle. Anche l’amore ha poco di romantico: è una passione del tutto irrazionale, che non si fa imbrigliare negli schemi della morale tradizionale, come una curva nello spazio di Gaudì o un gioco fantastico di Mirò. Senza però le implicazioni religiose dell’architetto né la ludica fantasia del pittore. Piuttosto nel vortice sensuale dell’action painting, forma d’arte più vicina alla sensibilità pragmatica e all’estrazione culturale del regista newyorkese. Non è un caso se i personaggi interpretati da Bardem e da Penelope Cruz dipingono sgocciolando il colore sulla tela adagiata in terra. Woody Allen avrebbe avuto un aggancio straordinario se avesse preso in considerazione i quadri di Pollock dei primi anni Quaranta, chiaramente influenzati da Mirò (che conobbe Pollock solo nel ’47 ma era da questi ben conosciuto in virtù della personale dedicata al pittore catalano dal Museum of Modern Art nel 1941); ma il Pollock che interessa al regista è quello successivo, dei dripping, che meglio rappresenta la visione dolorosamente e non gioiosamente irrazionale della vita. In questo Woody Allen è estremamente coerente con se stesso. Nel 1977 fece iniziare il suo capolavoro, Io ed Annie, con una barzelletta: «C’è una vecchia storiella. Due vecchiette sono ricoverate nel solito pensionato per anziani e una di loro dice: “Ragazza mia, il mangiare qua dentro fa veramente pena!” E l’altra: “Si, è uno schifo! Ma poi che porzioni piccole!” Beh, essenzialmente è così che io guardo alla vita: piena di solitudine, di miseria, di sofferenza, di infelicità e… disgraziatamente dura troppo poco!» Dunque, nella Barcellona di Vicky Cristina e Woody non c’è nulla dell’anima solare catalana, ma tutto della nebbia esistenziale newyorkese. La Barcellona rappresentata nel film è superficiale come una cartolina, e questo è infatti il tenore delle prime inquadrature. Sembra che a Woody Allen non interessi niente della città. L’ambientazione non è essenziale ma necessitata. Per questo il film non sembra del tutto riuscito. È piacevole, mirabile nel campo-controcampo della scena in cui Cristina incontra Juan Antonio alla galleria d’arte, ma sostanzialmente fuori contesto. Se proprio in Europa girare deve, allora meglio per Allen continuare con la location londinese, che più si avvicina al suo mondo metropolitano e anglosassone. In conclusione, Vicky Cristina Barcelona è un buon prodotto, ma non eccezionale come avrebbe potuto essere: come un biscotto cotto al microonde anziché nel forno tradizionale.

La nuova Unità


Ieri ho comprato l'Unità nel nuovo mini-formato. Sono contento di averlo fatto nel giorno che la sua Direttrice, Concita De Gregorio, è stata insultata in tv dal Ministro della Difesa. Le dimensioni ridotte rendono il giornale molto maneggevole, poco ingombrante. Riguardo ai contenuti, mi aspettavo un maggiore apporto da parte di grandi firme, come aveva promesso la De Gregorio. Mi aspettavo anche una pagina culturale più ricca. Tuttavia, credo che il giudizio vada sospeso e sottoposto alla prova del tempo. Ora è troppo presto. Nell'edizione di ieri mi hanno colpito le dichiarazioni di un docente della Normale di Pisa, il professore Adriano Prosperi: «Sono stanco di presentare note per i dottorandi che cercano all'estero il loro futuro. [...] Il mio vissuto quotidiano è di scrivere lettere per giovani che si presentano a concorsi all'estero. È diventata un'attività sempre più impegnativa». Chiunque di voi ha avuto a che fare con l'Università sa che queste parole fotografano quella che è la situazione reale dei nostri atenei e della ricerca nel nostro Paese.

Marco Travaglio - Rete4, l'immortale

Berlusconi: avviso ai naviganti

Vi consiglio anche di vedere sul sito del tg4 l'edizione delle 19.30 del 24 ottobre. Giusto per farvi un'idea di come la tv di Berlusconi racconta la protesta contro il decreto Gelmini.

Cossiga sulla scuola

La strada verso casa

Qualcuno, fra i più cinefili di voi, avrà riconosciuto nell'immagine qui sopra una scena del film La strada verso casa, di Zhang Yimou. A tutt'oggi uno dei miei film preferiti, forse il ...
Ricordo che lo vidi per la prima volta qui a Firenze, al Teatro delle Laudi. Non era in prima visione, ma io l'avevo perso. Non ricordo esattamente in che contesto fosse collocato, certamente in una rassegna cinematografica. Ci andai con gli amici della Fuci. Ricordo che ne seguì un dibattito e qualcuno disse che, contrariamente agli altri suoi film, in questo caso Zhang Yimou mostrava un certo ottimismo, testimoniato dai colori vivi in una fotografia straordinaria. Si disse anche che, per una volta, non si trattava di un film politico. Il regista aveva avuto in passato problemi con il regime. Io, fino ad allora, avevo visto solo Lanterne rosse, che ricordavo a malapena e tuttavia con un certo disagio, per quella simmetria mondrianesca che ha sempre destato in me una sensazione spiacevole di claustrofobia. Una simmetria che facilmente associavo all'ordine perseguito da ogni dittatura, con le sue parate militari. In effetti, ne La strada verso casa, la simmetria maniacale di Lanterne rosse lascia spazio alla poesia dei campi lunghi sul meraviglioso paesaggio cinese; e la storia romantica è evidentemente del tutto apolitica. Tuttavia, fin da allora, da quando cioè vidi il film al Teatro delle Laudi, mi permisi di dissentire tanto sull'ottimismo quanto sulla apoliticità della pellicola. Ritenevo infatti, e ne sono convinto tutt'ora, che la scelta geniale di rappresentare il presente in bianco e nero e il passato a colori, fosse un modo per veicolare il messaggio di una nostalgia per i valori tradizionali della Cina contadina, rispetto a quelli attuali del regime. A un passato a colori Zhang Yimou contrappone un presente in bianco e nero. Facile allora desumere anche, da parte del regista, un giudizio politico negativo sul presente. Parlare d'amore può essere un modo per contestare un regime, aggirandone la censura. Così è stato spesso, nel pubblico come nel privato: Leopardi ricorreva a questo stratagemma per aggirare la censura paterna. Questa lettura mi pare trovi conferma anche nell'intertesto. Per fare un esempio, a un certo punto la macchina da presa mostra appesa al muro della casa del protagonista la locandina del Titanic di James Cameron. Tutti ricordano la scena romantica per eccellenza con Di Caprio che abbraccia Kate Winslet, ma la storia del Titanic è pur sempre la storia del naufragio della modernità. Perciò, a mio avviso, La strada verso casa è una bellissima storia d'amore, per quanto mi riguarda una delle più belle nella storia del cinema, ma è anche un giudizio politico severo rivolto al regime comunista cinese, apertosi alla modernità capitalista ma ancora, dopo dieci anni (il film è del 1999), sporco del sangue di piazza Tian'anmen.

venerdì 24 ottobre 2008

La parola alla sorella

Ospito volentieri sul blog il parere della psicologa di casa sul tema delle classi differenziali...

Sono completamente d'accordo con l’arrabbiatura.

Le classi differenziali, o comunque le si voglia chiamare, semplicemente NON STANNO IN PIEDI. Mi permetto di dirlo con la sicurezza di chi da 10 anni si occupa di inserimento scolastico e alfabetizzazione in lingua italiana di alunni stranieri.

Non stanno in piedi prima di tutto da un punto di vista organizzativo. Classi per stranieri ma…per quali stranieri? I cinesi? gli albanesi? i macedoni? gli albanesi di lingua macedone o i macedoni di lingua albanese? Nazionalità plurime, lingue madri radicalmente diverse fra loro e dalla nostra lingua, percorsi di scolarizzazione pregressa (e relativi apprendimenti) variegati.

Come affrontare da un punto di vista organizzativo e didattico questa immensa (e preziosa, e faticosa, ovviamente) eterogeneità? A chi affidare l'insegnamento? Quanto tempo prevedere per la "decompressione", ossia prima di traghettare i malcapitati dal purgatorio alla meta finale (inferno o paradiso?...mah).

Qualsiasi testo sull'argomento (che evidentemente non è stato consultato prima di fare la proposta) dice, senza ombra di dubbio, che l'apprendimento della "lingua colloquiale" (quella funzionale alle relazioni e alla "sopravvivenza") richiede almeno 2 anni, vissuti preferibilmente IN UN CONTESTO DI IMMERSIONE. E ben peggio va per la lingua dello studio, quella che ci permette cioè di apprendere le discipline, che necessita di 5 o addirittura di 7 anni di pratica.... Traete le dovute conclusioni.

La seconda questione è che, ancora una volta, le politiche sull'immigrazione si traducono in un "mettiamoci 'na pezza", atteggiamento emblematico del rifiuto a considerare il fenomeno come stabile, irreversibile, strutturale. Sarebbe come dire: non ci siamo ancora rassegnati al fatto che oggi il 13/16% della popolazione in età di obbligo scolastico non è italiana né italofona (si tratta di una media, in alcuni contesti l’incidenza supera il 50%) e che questo trend non è destinato a decrescere, anzi...

Una società di fatto multiculturale (da ormai 30 anni, alla faccia di chi parla di "fenomeno recente" o di “emergenza attuale”, puri falsi storici!) non può che ripensare se stessa, ripensare i propri sistemi sociali, adeguandoli alle nuove caratteristiche di chi ne può e ne deve fruire.

I diritti di cittadinanza iniziano con il libero accesso ai servizi (non commento neanche la proposta di non iscrizione per chi arriva dopo il 3° mese dall'inizio dell'anno scolastico, pura follia) e continuano con la messa a disposizione di risorse che garantiscano una reale possibilità di fruizione degli stessi. E queste risorse non vanno inventate ex novo, già esistono, già funzionano, si tratta di dare loro continuità, senza tenerle sempre sospese al filo sottilissimo dei finanziamenti a termine, autentica spada di Damocle che pende sulla testa di noi che “lavoriamo sul campo”.

Non c’è nessuna retorica e nessun buonismo: la mediazione linguistico-culturale nei percorsi di prima e seconda accoglienza, il supporto educativo e psicologico agli adolescenti in difficoltà, la formazione dei genitori e degli insegnanti, i laboratori di L2 ad “entrata e uscita”, l’uso di materiali plurilingue e di unità didattiche semplificate: ecco alcuni degli strumenti possibili e già attualmente praticati.

Se si vogliono fare riforme perché non si parte dal potenziare l’esistente?! Perché non si consultano (come in qualsiasi altro ambito) tecnici e specialisti in materia???

Se volete avere qualche esempio di “buona prassi” esportabile (noi siamo ben felici se qualcuno trae spunto dalle nostre esperienze) vi invito a consultare, ad esempio, il sito della Rete per l’integrazione scolastica degli alunni stranieri di Montebelluna www.scuolaacolori.it, quello della cooperativa “Una casa per l’uomo” www.unacasaperluomo.it, quello del CESTIM di Verona www.cestim.it

L’integrazione non è un prodotto ma un processo lento, che richiede reciprocità, specializzazione (non improvvisazione), costanza e fatica, certamente, ma che può dare e dà grandi risultati. Per tutti noi, non solo per “gli stranieri”, qualsiasi cosa questa parola voglia dire.

Come ha detto qualcuno: “ci aspettavamo braccia e sono arrivati uomini”.


L'unica cosa che posso aggiungere è: vai e spiegaglielo! Quando si eleggono delle capre cosa ci si può aspettare?


giovedì 23 ottobre 2008

1938-2008: L'ITALIA RAZZISTA

Nel 2008 si celebrano i sessant'anni della Costituzione, ma c'è un altro compleanno: il Manifesto della razza compie settant'anni!! Giustamente in Italia è stato ampiamente celebrato: impronte digitali ai Rom, crani spaccati ai ladruncoli negri, mitragliate di kalashnikov, permesso a punti, cori allo stadio... e ora finalmente anche le classi-ghetto!! Bene! Fa piacere vedere che l'Italia in settant'anni si è conservata salda nei suoi sani principi e non ha ceduto alle sirene "terzomondiste" e "pacifiste" di certi ambienti cattolici e laici. È consolante constatare che da allora non ha fatto passi avanti e, se li ha fatti, ha capito l'errore e ora è pronta a tornare indietro e rinverdire i fasti del mitico 1938 con le sue leggi razziali! Rileggiamoli allora quei dieci punti di cui tutti noi andiamo orgogliosi: 1) LE RAZZE UMANE ESISTONO 2) ESISTONO GRANDI RAZZE E PICCOLE RAZZE 3) IL CONCETTO DI RAZZA È CONCETTO PURAMENTE BIOLOGICO 4) LA POPOLAZIONE DELL'ITALIA ATTUALE È NELLA MAGGIORANZA DI ORIGINE ARIANA E LA SUA CIVILTÀ ARIANA 5) È UNA LEGGENDA L'APPORTO DI MASSE INGENTI DI UOMINI IN TEMPI STORICI 6) ESISTE ORMAI UNA PURA "RAZZA ITALIANA" 7) È TEMPO CHE GLI ITALIANI SI PROCLAMINO FRANCAMENTE RAZZISTI 8) È NECESSARIO FARE UNA NETTA DISTINZIONE FRA I MEDITERRANEI D'EUROPA (OCCIDENTALI) DA UNA PARTE E GLI ORIENTALI E GLI AFRICANI DALL'ALTRA 9) GLI EBREI NON APPARTENGONO ALLA RAZZA ITALIANA 10) I CARATTERI FISICI E PSICOLOGICI PURAMENTE EUROPEI DEGLI ITALIANI NON DEVONO ESSERE ALTERATI IN NESSUN MODO.

Che belle parole! Vero? Non fa piacere anche a voi sapere che questi valori sono ancora vivi in mezzo a noi?



Scusate, ma è dall'inizio dell'anno che accumulo rabbia per i continui episodi di razzismo che come un cancro si stanno diffondendo nel nostro amato Paese. Non ne posso più di sentire dei politici che vanno in televisione a difendere le loro posizioni chiaramente razziste con distinguo che suonano ancora più sinistri perché quantomai ipocriti. L'altro giorno proprio non ce l'ho fatta a vedere ospite di Lerner il leghista Cota. Lo confesso: appena ho visto la sua faccia, ho cambiato canale. Se da un lato apprezzo la volontà di Lerner di dialogare con tutti, dall'altro io mi sono scoperto intollerante: dare la parola ai vari Borghezio, Gentilini e quant'altro mi sembra gli attribuisca una patente di credibilità, li avvalori come interlocutori civili, quando le posizioni che sostengono sono del tutto incivili. Se fossi giornalista televisivo, io non li intervisterei mai, neanche per criticarli. Lo so, esagero. Però sento che è giunto il momento di tirare fuori il coraggio dell'intransigenza di fronte a una deriva razzista, o razzismo di ritorno, che pavento per la nostra società. Bisogna avere il coraggio di dire basta!

Ieri a scuola ho cercato di spiegare la bellezza insita nel progetto dell'Unione Europea. Ho detto ai ragazzi che la volontà di unirsi è nata sulle ceneri della seconda guerra mondiale, e sulla presa di coscienza dell'immane tragedia della guerra. Ho cercato di farli riflettere sulla bellezza della conoscenza reciproca delle tradizioni locali, sulla positività della libera circolazione delle persone nei paesi dell'Unione. Non so come, a un certo punto sono venuti fuori gli zingari e si è scatenato l'inferno: sono sudici! puzzano! rubano! i bambini mangiano per terra! a mio zio gli hanno rubato il portafoglio! a mia nonna la borsetta!! fanno schifo! ma perché non vanno a lavorare! ecc. ecc. ecc.

Ho toccato con mano il tasso di regressione culturale della nostra società, nel suo punto più vitale: le giovani generazioni. I miei alunni sono troppo piccoli per esprimere compiutamente il loro pensiero, quindi quello che dicono è in gran parte mutuato dai discorsi che sentono a casa. Purtroppo oggi rischiano di sentirli anche alla televisione.

Per fortuna qualche giornale che ha il coraggio di dire pane al pane e vino al vino c'è, e mi fa piacere costatare che sia Famiglia cristiana, io che sono spesso così critico nei confronti della Chiesa, di cui pur continuo a fare parte. Perciò pubblico l'articolo che troverete nell'ultimo numero e sul sito della rivista:

RISPOSTE SBAGLIATE A PROBLEMI REALI DI INSERIMENTO DEGLI STRANIERI SI DICE "CLASSI PONTE"LEGGASI "CLASSI GHETTO"

Per il ministro Gelmini le "classi di inserimento" per bambini immigrati «non sono un problema di razzismo, ma un problema didattico». Per Alessandra Mussolini, presidente della Commissione parlamentare per l'infanzia, sono «un provvedimento di stampo razzista».

La Lega cavalca l’onda e va all’arrembaggio dell’immigrato. La "fantasia padana" non ha più limiti, né pudore. Prima le impronte ai rom, poi il permesso a punti e i 200 euro per il rinnovo, poi l’impedimento dei ricongiungimenti familiari, e ora una mozione, avanzata a sera tardi in Parlamento, per le classi differenziali, col pretesto di insegnare l’italiano agli stranieri. Il problema dell’inserimento degli stranieri a scuola è reale, ma le risposte sono "criptorazziste", non di integrazione.
Chi pensa a uno "sviluppo separato" in Italia, sappia che quel concetto in altra lingua si chiama "apartheid", andata in scena in Sudafrica per molti anni: autobus, cinema e scuole separati. L’onorevole Casini ha parlato di proposta vergognosa: «Di questo passo, andrà a finire che ai bambini delle classi separate cuciranno sul vestito la lettera "i" come immigrato». E il Secolo d’Italia, quotidiano di An, nel tentativo di frenare la Lega, ha scritto: "Scordatevi l’apartheid".
La questione dell’italiano è solo una scusa. Tutti sanno che le cosiddette "classi di inserimento" non sono efficaci. I risultati migliori si ottengono con classi ordinarie e con ore settimanali di insegnamento della lingua. In Italia questo, in parte, avviene. Lo prevedono le "Linee guida" (2006) dell’allora ministro Moratti per l’accoglienza degli alunni immigrati, approvate anche dalla Lega. C’è un progetto che prevede un finanziamento di 5 milioni di euro per insegnare tre diversi livelli di lingua italiana. Il Governo potrebbe rispolverarlo e far cadere (per amor di patria) la prima "mozione razziale" approvata dal Parlamento italiano. Oppure, guardare a esperienze come a Firenze dove un pulmino passa a prendere i bambini stranieri a scuola, li porta ai corsi d’italiano e poi li riporta in classe.
La mozione, poi, va letta fino in fondo. Prevede che i bambini immigrati, oltre alla lingua italiana, debbano apprendere il «rispetto di tradizioni territoriali e regionali», della «diversità morale e della cultura religiosa del Paese accogliente», il «sostegno alla vita democratica» e la «comprensione dei diritti e dei doveri». Qualcuno sa dire come spiegarlo a un bambino di 5-6 anni, che deve ancora apprendere l’italiano?
Se l’integrazione è un bene (tutti la vogliono), dev’essere interattiva. E allora, perché non insegniamo agli alunni italiani il rispetto delle "tradizioni territoriali e regionali" degli immigrati? Ha detto bene il cardinale Scola: «I buoni educatori devono saper favorire l’integrazione tra le culture, che è una ricchezza per tutti». Il rischio, altrimenti, è una società spaccata in due, di cui una con meno diritti dell’altra.
Alle difficoltà reali si risponde con proposte adeguate, come s’è fatto col maestro di sostegno. In Italia non abbiamo più classi speciali per portatori di handicap, ci sono scuole dove sordi e muti stanno insieme a chi parla e sente. La mozione approvata dal Parlamento fa scivolare pericolosamente la scuola verso la segregazione e la discriminazione. Si dice "classi ponte", ma si legge "classi ghetto".
Negli anni Sessanta, quando bambini napoletani, calabresi o siciliani andavano a scuola a Novara, nessuno s’è sognato di metterli in una "classe differenziale" perché imparassero italiano, usi e tradizioni del Nord, né di far loro dei test d’ingresso. Perché ora ci pensa il novarese Cota?

martedì 21 ottobre 2008

Avvistamenti UFO sul Corriere della sera




«Quando l'aereo Alitalia incrociò un Ufo»
Anche la testimonianza del pilota italiano Zaghetti tra i documenti resi pubblici dal ministero della Difesa inglese



LONDRA (Gran Bretagna) - Negli ultimi tempi, l’Alitalia ha fatto notizia per le traversie economiche che l’hanno quasi portata alla chiusura, ma oggi la compagnia di bandiera italiana finisce sui giornali di mezzo mondo, fra cui il londinese Daily Mail, per una storia diversa, genere "incontri ravvicinati del terzo tipo" per intenderci. Stando, infatti, ai documenti segreti e resi pubblici oggi per la prima volta dal Ministero della Difesa, alle 19.58 del 21 aprile 1991 l’aereo di linea Alitalia AZ 284 in volo da Milano a Londra e con 57 passeggeri a bordo avrebbe incrociato un «oggetto volante non identificato» poco sopra il Kent, durante la fase di atterraggio all’aeroporto di Heathrow. L’incidente divenne immediatamente materia di indagine da parte dell’aviazione civile britannica e di quella militare.
SIMILE A UN MISSILE - Simile ad un missile lungo 3 metri e di colore marrone e viaggiante alla velocità di circa 120 miglia orarie (oltre 190 chilometri all’ora), lo strano oggetto avrebbe virato improvvisamente e sarebbe passato a poco più di 300 metri dall’aereo italiano, costringendo così il pilota, Achille Zaghetti, ad una manovra improvvisa per evitare la collisione, prima di sparire dai radar altrettanto misteriosamente com’era apparso. Avendo quasi subito scartato la possibilità che si trattasse effettivamente di un missile, come pure di un palloncino meteo o di un razzo spaziale, il Ministero della Difesa fu costretto ad ammettere che poteva trattarsi di un vero e proprio Ufo e il 2 luglio di quello stesso anno l’inchiesta venne archiviata. «Non siamo in grado di confermare l’identità dell’oggetto avvistato dall’equipaggio del volo Alitalia – si legge nel rapporto ufficiale – e in assenza di chiari elementi di prova che possano essere utilizzati per l’identificazione, è nostra intenzione considerare tale avvistamento come quello di qualsiasi altro "oggetto volante non identificato". Pertanto, non ci saranno ulteriori indagini».
LA TESTIMONIANZA DEL PILOTA ITALIANO - Nel documento fino a ieri secretato è anche riportata la testimonianza del pilota italiano. «Ho visto per circa 3 o 4 secondi un oggetto volante molto simile ad un missile e di colore marrone chiaro – raccontò all’epoca Zaghetti – e ho subito urlato "Attenzione! Attenzione" al mio co-pilota, che aveva visto la stessa cosa. Non appena abbiamo incrociato l’oggetto, ho chiesto a quelli della torre di controllo se avessero notato qualcosa sui loro schermi e l’operatore rispose che vedeva un obiettivo sconosciuto a 10 miglia nautiche dietro di noi». In seguito, alle 22.25 di quella stessa notte, la polizia di Brentwood, nell’Essex, compilò un rapporto su un "oggetto volante di colore scuro" apparso in cielo e che si muoveva senza rumore di motore o luci, mentre la tv locale trasmise la storia di un ragazzino quattordicenne che raccontò di aver visto un missile volare a bassa quota prima di sparire attraverso la coltre di nubi.
L'AVVISTAMENTO DEL 1957 - L’inspiegabile incontro dell’aereo Alitalia è, però, solo uno dei tanti che sono stati rivelati oggi e fra gli altri incidenti registrati ci sarebbe anche quello che ha avuto come protagonista un ex pilota dell’Air Force americana, Milton Torres, che ha raccontato di aver tentato di abbattere un’astronave aliena nei cieli sopra l’Inghilterra occidentale il 20 maggio del 1957. Quella notte, l’allora venticinquenne Torres, all’epoca di stanza alla base RAF di Manston, nel Kent, ricevette l’ordine immediato di alzarsi in volo e di intercettare un UFO "con un insolito schema di volo" che i radar di terra stavano seguendo da un po’ di tempo. Stando al racconto dell’ex militare, poi diventato professore di ingegneria civile e che oggi vive a Miami e ha 77 anni, malgrado le nuvole non permettessero di vedere praticamente nulla, l’oggetto apparve chiaramente sul suo radar e, come dimensioni, ricordava un bombardiere B-52. Gli venne immediatamente ordinato di fare fuoco, ma così come era apparso, nel giro di pochi secondi l’Ufo scomparve. Il giorno dopo, un uomo che diceva di essere della National Security Agency (NSA) americana gli intimò il silenzio sull’intera storia, pena la perdita del suo status di pilota. Impegno che Torres mantenne fino al 1988 quando, durante una riunione di veterani dell’Air Force (USAF), chiese agli ex compagni che come lui avevano vissuto analoghi incontri del terzo tipo di farsi avanti e di raccontare le loro verità, perché il mondo aveva il diritto di sapere.
Simona Marchetti 20 ottobre 2008 (ultima modifica: 21 ottobre 2008)

Segnalazione veloce...

Sul sito di Repubblica stanno raccogliendo firme pro Saviano. E' una cosa facile e indolore, fatelo!
Bye!

venerdì 17 ottobre 2008

Le iene - Saviano

Ho letto oggi sui giornali le varie dichiarazioni delle più alte cariche dello Stato a sostegno di Roberto Saviano. Mi ha fatto molto piacere. Sono convinto che qui non sia in gioco solo l'incolumità di una singola persona. Sono i valori di libertà su cui si regge il nostro tessuto sociale ad essere minacciati. I valori costituzionali della libertà personale, della libertà di pensiero, di parola, di stampa... Perciò le parole del Presidente della Repubblica, del Presidente del Senato e del Presidente della Camera sono giunte quanto mai opportune a difesa di questi valori, non solo di Saviano in quanto tale. Anche noi, come cittadini, dobbiamo difendere questi valori e promuoverli nella società, là dove ancora sono disconociuti. È una battaglia che come semplici cittadini possiamo e dobbiamo combattere, perché è una battaglia culturale. Spesso mi viene da accostare la figura di Saviano a quella di Falcone e Borsellino. Perché la storia non si ripeta tragicamente dobbiamo imparare dal loro sacrificio: loro furono lasciati soli, per questo è importante non lasciare solo Saviano. Anche noi, soprattutto quelli di noi che ricoprono ruoli educativi nella società (qui mi sento chiamato in causa come insegnante), dobbiamo diventare partigiani della democrazia, difensori della Costituzione, baluardi contro l'involuzione culturale del nostro Paese. Anche noi, oggi, siamo chiamati a resistere!

(video tratto da Repubbica tv)

domenica 12 ottobre 2008

Miracolo a Sant'Anna di Spike Lee

Il 12 agosto 1944, verso le sei del mattino, la sedicesima divisione corazzata Reichsfürer delle SS, arrivata in Italia dall’Ungheria e composta per due terzi da giovani sotto i vent’anni comandati da ufficiali e sottufficiali con esperienza effettiva nei lager, arrivò a Sant’Anna di Stazzema, paesino toscano inerpicato sulle Alpi Apuane. A guidarli sul posto furono alcuni collaborazionisti italiani. I tedeschi cercavano i partigiani, ma a Sant’Anna, a parte qualcuno di passaggio, di partigiani non ce n’erano. C’erano invece i rifugiati dei paesi vicini della Versilia, costretti ad abbandonare le loro case perché i nazifascisti avevano deciso di sgomberare quell’area a ridosso della linea gotica. A Sant’Anna avevano trovato una generosa accoglienza e la popolazione del paese era cresciuta in poco tempo, fino quasi a quadruplicare. Circa millecinquecento persone, ma nessun partigiano. I vertici militari tedeschi lo sapevano e, proprio per questo motivo, avevano annullato un precedente ordine del cinque agosto di evacuare il paese. Perciò quello che successe il dodici agosto nessuno se l’aspettava. Non lo si poteva neanche immaginare, perché quello che fecero le SS a Sant’Anna, va al di là di ogni immaginazione. Cinquecentosessanta morti: famiglie intere, donne (una con le doglie del parto), anziani, bambini, radunati nella piazza di fronte alla chiesa, dove la domenica all’uscita della messa si fermavano a chiacchierare, sparati con la mitragliatrice e poi bruciati in un immenso rogo appiccato con le panche della chiesa e i materassi delle case. A molti bambini venne sfondato il cranio con il calcio della pistola e poi vennero impalati. Altri furono arsi nei forni per il pane. No, una tale ferocia demoniaca non era immaginabile: Erode redivivo perpetuava la strage degli innocenti. Ma proprio questo era il compito della sedicesima divisione corazzata Reichsfürer: lo sterminio, il saccheggio, il terrore. Quando gli Alleati arrivarono a Sant’Anna, nel mese di settembre, non potevano credere ai loro occhi. Si misero subito a indagare su quell’eccidio che assunse ben presto i contorni di una storia talmente orribile da non poter essere raccontata. Infatti, quello che accadde a Sant’Anna non è stato raccontato per cinquant’anni. Non è stata una dimenticanza ma una precisa scelta politica. La nuova fase storica immediatamente successiva alla seconda guerra mondiale, la “guerra fredda”, aveva ribaltato le alleanze: i sovietici che avevano combattuto Hitler, ora erano i nemici; i tedeschi della Germania occidentale, gli amici. Perciò, semplicemente, non sembrava opportuno perseguire i criminali nazisti. Il 23 ottobre 1952 Kesselring venne scarcerato e nel 1954 Max Simon, comandante della sedicesima divisione Reichsfürer e unico ufficiale condannato per la strage di Sant’Anna, venne graziato e liberato dal governo inglese. Entrambi morirono all’inizio degli anni Sessanta senza aver rinnegato nulla del loro passato. Così la storia di Sant’Anna di Stazzema è rimasta sepolta negli archivi militari per cinquant’anni, fino al 1994. Il 25 aprile del 2000, il Presidente della Repubblica, Carlo Azeglio Ciampi, si è recato a Sant’Anna per celebrare la Festa della Liberazione. Nel 2004 è iniziato presso il tribunale di La Spezia un processo che si è concluso nel giugno del 2005 con le condanne all’ergastolo per tutti i responsabili dell’eccidio. Nel 2007 si è avuta la conferma definitiva delle condanne con la sentenza della Cassazione. La giustizia ci ha messo perciò sessantatre anni a raccontare la storia di Sant’Anna. La politica, invece, prima ha scelto di non farlo, poi non è riuscita a farlo: la commissione parlamentare d’inchiesta, istituita nel 2003, si è arenata in sterili polemiche di parte. Anche i libri di scuola l’hanno ignorata a lungo e ancora oggi non le dedicano lo spazio che meriterebbe, stretta com’è tra Marzabotto e le Fosse Ardeatine. C’è dunque un vuoto nella nostra società civile. Il vuoto di un Paese che non ha fatto del tutto i conti con il proprio passato; di un popolo che non è ancora riuscito a elaborare completamente il lutto della guerra civile, quella guerra di resistenza dalla quale si sono affermati i valori, già risorgimentali, di libertà e democrazia su cui si è voluta fondare la nostra Repubblica. Valori che non potranno dirsi del tutto condivisi finché la nostra società non avrà completato questo percorso di presa di coscienza delle responsabilità. Di tutte le responsabilità, da una parte e dell’altra, senza più manicheismi ideologici e tabù storici, ma senza neanche cadere nelle sabbie mobili di un relativismo etico e di un revisionismo altrettanto ideologico che impedirebbero di distinguere chi ha combattuto per quei valori e chi invece vi ha combattuto contro. Un percorso culturale ancora lungo che ci coinvolge tutti in quanto cittadini italiani, a tutti i livelli, e che non può essere delegato alla sola giustizia processuale, ma neanche alla sola politica.
Tantomeno può essere delegato al cinema, soprattutto a quello straniero. Il film di Spike Lee, Miracolo a Sant’Anna, non può restituirci la verità di quegli avvenimenti perché è un’opera di finzione. Forse gli si poteva chiedere un maggior rigore storiografico, ma in fondo non è così importante. Il fatto che il regista americano abbia legato la strage di Sant’Anna a una rappresaglia figlia del diktat di Kesselring (dieci civili uccisi per ogni soldato tedesco caduto sotto il fuoco nemico), o che abbia mostrato il tradimento di un partigiano, ha creato tanto scalpore perché ha rivoltato il coltello in una piaga che ancora non si è rimarginata completamente. Ma se non è stata curata bene, la colpa non è di Spike Lee. L’indignazione un po’ ipocrita (non quella di giornalisti-testimoni come Giorgio Bocca, ovviamente, ma quella di quanti prima del film ignoravano perfino l’esistenza di Sant’Anna), seguita all’uscita in Italia del film, è solo la prova di una debolezza in seno al nostro vivere civile, che fatica a ri-unirsi e ri-conoscersi intorno ai valori scritti nella Costituzione, come di recente ha amaramente ammesso il Presidente Giorgio Napolitano. Se non la raccontiamo noi la nostra storia, se non sappiamo trarne gli opportuni insegnamenti, non possiamo lamentarci che siano altri a farlo, e che non lo facciano come ci piacerebbe. In più, Spike Lee, solo per inciso voleva parlare di Sant’Anna, com’era ovvio che fosse, non essendo lui italiano. L’episodio storico gli è servito come scusa per affrontare il tema che gli sta da sempre a cuore, viste le sue origini: la discriminazione razziale negli Stati Uniti d’America, inquadrata nel caso specifico di un battaglione di soldati di colore che hanno combattuto durante la seconda guerra mondiale. Il suo non è un film sull’Italia e sulla sua storia. È un film sugli Stati Uniti, e piuttosto quelli di oggi che quelli di ieri, giunto com’è in piena campagna elettorale, con un leader di colore per la prima volta candidato alla Presidenza. Spike Lee parla dunque di razzismo e a un certo punto fa dire a un soldato afroamericano che in Italia non si sente discriminato come nel suo Paese. Forse, dopo i recenti episodi di cronaca, ci saremmo dovuti interrogare sulla bontà di questa affermazione nella nostra società di oggi. Spike Lee parla anche della tragica insensatezza della guerra, soprattutto agl’occhi di Dio, che viene ripetutamente chiamato in causa, a partire dal titolo. Il miracolo che avviene a Sant’Anna è la capacità che i protagonisti hanno di trovare un senso alla vita nel momento in cui viene più drammaticamente negato dalla guerra e pur nelle più atroci sofferenze. Anzi proprio in quelle viene trovato il senso: è significativo che nella scena finale venga baciato un crocifisso.
Di fronte alla portata di questi messaggi, alle riflessioni che suscitano, le argomentazioni tecniche sulla regia, o i dubbi sulla coerenza della sceneggiatura, passano davvero in secondo piano.

Corrado Guzzanti - Il mafioso si sceglie il giudice

Verdone - I COMIZI DELLA PRIMA REPUBBLICA

2a Puntata Di Zelig 06-10-2008 Marco Marzocca

giovedì 9 ottobre 2008

Annuntio vobis gaudium magnum!!!

Prima però lasciatemi dire che siete dei mandronazzos! Nessuno mi vota il sondaggio sul titolo del blog. Finisce che decido io di testa mia oppure che entro in sciopero come l'altra volta.

L'annuncio riguarda un racconto che mi è stato pubblicato sul blog di Beppe Severgnini e che potete votare dal 1 al 15 novembre per farlo entrare nell'e-book che sarà scaricabile da internet. Perciò, mi raccomando: leggete e votate votate votate!!! Ecco il link:

http://www.corriere.it/solferino/severgnini/italians_10anni/09/index.shtml

mercoledì 8 ottobre 2008

Il Presidente del Consiglio è...?

Qualche giorno fa ho spiegato la differenza fra repubblica parlamentare e repubblica presidenziale. Per la prima, naturalmente, ho fatto l'esempio dell'Italia. Per la seconda degli Stati Uniti d'America. Poi ho mostrato alla classe le foto di Giorgio Napolitano e di Silvio Berlusconi. Il primo Presidente della Repubblica, il secondo del Consiglio. Infine ho mostrato una foto di George Bush, il Presidente degli Stati Uniti.
Bene, oggi interrogo:
"Ti ricordi che ti ho fatto vedere le foto?...Giorgio Napolitano è il Presidente della Repubblica... e quell'altro che ti ho fatto vedere chi era?"
Buio completo.
"Ma come? Non ricordi? Di chi era quell'altra foto che ti ho mostrato?"
Silenzio. Occhio pallato.
"Dài, suu!! ...che poi ti ho fatto vedere anche la foto del Presidente americano...ma quello prima chi era?"
Vuoto intergalattico.
"Ma, insomma! Il Presidente del Consiglio, il Capo del Governo, in Italia chi è?"
D'improvviso la luce...
"AH, SIIIII!"
"Oh, bravo! Allora, chi è?"
"GEORGE WASHINGTON!"



sabato 4 ottobre 2008

Ieri ho scritto a Casini, oggi al direttore di Famiglia cristiana, secondo voi sto impazzendo?

Al direttore di Famiglia cristiana ho scritto sul nuovo niet di Benedetto XVI in tema di contraccezione. Non credo che verrà pubblicata, perciò la pubblico io sul blog. Mi piacerebbe che lasciaste qualche commento al post per sapere il vostro parere.


Caro don Antonio,
il messaggio inviato da Benedetto XVI al un congresso sui 40 anni dell'Humanae Vitae (l'enciclica con cui Paolo VI proibì la pillola), in corso a Roma, mi dà molto da pensare. Tempo fa mia mamma mi confidò con quanta speranza lei e mio padre (cattolici credenti e praticanti) avessero atteso la parola di Paolo VI e con quanta delusione l'avessero accolta. Già all'epoca dell'Humanae Vitae,
dunque, la coscienza dei cattolici era in fermento su questo argomento, perché sentiva come retrive le posizioni del magistero. Quarant'anni dopo, Benedetto XVI ce le ripropone tali e quali. Per me, che ho trentaquattro anni e continuo ostinatamente a dirmi cattolico, queste posizioni appaiono giurassiche e temo che per i ragazzi della generazione dopo la mia (quelli che hanno tra i diciotto e i vent'anni), siano addirittura incomprensibili. D'altro canto, lo stesso Pontefice ne è consapevole quando ammette che molti fedeli hanno difficoltà a comprendere l'insegnamento della Chiesa.
Ma con questa mia lettera voglio andare oltre, ed è per questo che le scrivo. Sono arrivato al convincimento che il divieto dell'uso dei contraccettivi da parte della morale cattolica sia figlio di un giusnaturalismo teologicamente sbagliato. Intendiamoci. Continuo a ritenere la castità un valore e penso che una coppia che decida di praticarla scelga una strada molto bella per vivere il proprio amore. Tuttavia, quando il Papa dice che "nel cammino della coppia possono verificarsi delle circostanze gravi che rendono prudente distanziare le nascite dei figli o addirittura sospenderle" e avvalora la contraccezione "naturale" ("la conoscenza dei ritmi naturali della fertilità della donna" che diventa importante "per la vita dei coniugi"; "I metodi di osservazione, che permettono alla coppia di determinare i periodi di fertilità consentono di amministrare quanto il Creatore ha sapientemente iscritto nella natura umana, senza turbare l'integro significato della donazione sessuale". Traggo il virgolettato da Repubblica), qualcuno ci vede una certa ipocrisia. Io non sono fra quelli, ma, come dire, a fatica. Penso però che respingere la contraccezione artificiale e approvare quella "naturale" implichi l'idea che l'uomo debba seguire il ciclo della natura creata da Dio. Il punto è che, mi corregga se sbaglio, proprio nel libro dell'Antico Testamento in cui si tratta della creazione, il Genesi, Dio istituisce la signoria dell'uomo sulla natura (Gen 1, 26-31)! Senza di essa, bisognerebbe considerare peccato ogni utilizzo strumentale delle risorse del creato e ogni interferenza sul corso naturale della vita. Estremizzando il discorso, anche prendere delle pastiglie per curarsi è deviare dal corso naturale della vita. Mi rendo conto che questa argomentazione rischia di far scivolare sulle sabbie mobili, per esempio quelle dell'eutanasia. Ma proprio per questo ritengo che sia necessaria una riflessione teologica nuova, che si faccia carico cioè di ripensare la morale cattolica alla luce delle nuove acquisizioni scientifiche, ma anche delle acquisizioni del comune sentire. Il che non significa necessariamente seguire le mode. Se la stragrande maggioranza dei cattolici non sente più in coscienza una contraddizione tra l'amare Gesù e vivere l'amore di coppia in maniera sessualmente attiva; se considera la contraccezione non un atto di irresponsabilità nei confronti della vita ma, al contrario, un atto di responsabilità verso quella vita nuova che si vuole far nascere al momento giusto, quando si sente dentro di sé la maturità necessaria per essere genitori, la maturità di coppia, intendo, non solo quella personale; se si considera infine l'atto sessuale protetto non un irresponsabile abbandono al piacere personale (una volta ho sentito dire a un monaco che anche l'atto sessuale di coppia può essere vissuto come una masturbazione), ma un donarsi interamente nella propria intimità alla persona amata...be', ecco, in tutti questi casi, il magistero della Chiesa dovrebbe responsabilmente interrogarsi. Io credo che Dio parli alla coscienza degli uomini. Possibile che non parli alla coscienza di questi cattolici?
Con stima,
Marcello

venerdì 3 ottobre 2008

Avete visto il programma di rai tre? E lei, onorevole?

Ho appena finito di vedere su rai tre il programma intitolato "Doppio gioco. Docu-fiction sulle talpe dell'antimafia" e sono rimasto turbato come non mi succedeva dal 1992, quando morì il giudice Falcone. Il turbamento maggiore me l'ha dato il finale, quando si ricorda che Totò Cuffaro è stato eletto senatore.
Ho deciso d'impulso di scrivere una mail all'ex Presidente della Camera, Pier Ferdinando Casini. Lo si può fare collegandosi al suo sito. Gli ho scritto così:
Presidente Casini, ha visto stasera il programma di rai tre intitolato "Doppio gioco. Docu-fiction sulle talpe dell'antimafia"? Cosa ne pensa? Io dopo averlo visto non vado a letto tranquillo. E lei?
Scusi, sa, avevo proprio voglia di chiederglielo.
Marcello

P. s. Avrei voluto scrivere una mail anche al Presidente del Senato, Renato Schifani. Mi sono collegato al sito del Senato, ma non sono riuscito a rintracciare l'indirizzo. Mi sa che non si può scrivergli direttamente.

P.p.s. Questa la presentazione del programma, tratta dal sito di rai tre:
"Doppio Gioco" - Docu fiction sulle talpe dell'antimafia
In onda venerdì 3 ottobre 2008 alle 21.05
I boss più vicini a Bernardo Provenzano, quelli veri, sono i protagonisti di una docu-fiction sui rapporti fra mafia, politica e imprenditoria. Gli uomini di Cosa Nostra ci conducono fino alla clinica dell’insospettabile Michele Aiello, il re Mida della sanità privata siciliana. Cosa fanno lì? Oggi, per la prima volta dopo i processi e le sentenze, abbiamo la possibilità di introdurci in quelle stanze e scoprire un mondo ancora per molti versi segreto. «Doppio gioco» è il titolo del film documentario coprodotto da Rai Fiction e “Magnolia”, nato da un’idea del produttore Claudio Canepari e del giornalista Salvo Palazzolo, che firmano la sceneggiatura assieme allo scrittore Piergiorgio Di Cara, a Riccardo Mosca e Andrea Vicario.

Regia di Riccardo Mosca e Andrea Vicario.

Il film racconta la difficile indagine condotta dalla Procura antimafia di Palermo e dai carabinieri a Bagheria, la roccaforte per decenni del capo di Cosa Nostra arrestato l’11 aprile 2006, e ricostruisce le attività “illecite” di un insospettabile, Michele Aiello, che poco a poco le indagini scopriranno essere al centro di una terribile trama di infedeli all’interno delle istituzioni. Per la prima volta, si ricompone la rete riservata che si muoveva attorno ad Aiello, per cercare di carpire notizie dalle indagini antimafia: professori universitari, medici affermati, prestigiosi manager e uomini delle istituzioni, tutti inseriti nei gangli vitali della società.

Il tutto nei luoghi dove veramente i protagonisti si muovevano: la troupe di «Doppio gioco» è entrata nella clinica Villa Santa Teresa, nel palazzo di giustizia di Palermo e nel Parlamento regionale, lì dove le talpe dell’antimafia agivano. Le ricostruzioni sono commentate dagli investigatori dell’Arma che hanno condotto quell’indagine poi giunta a un processo: la requisitoria dei pm Michele Prestipino, Maurizio De Lucia e del procuratore aggiunto Giuseppe Pignatone spiega che questa «non è stata semplicemente un’inchiesta sulle talpe nell’antimafia, ma sulla zona grigia delle complicità di Cosa nostra».

«Doppio gioco» arriva dopo «Scacco al re», docu-fiction sulla cattura di Provenzano, che oggi è diventata anche un cofanetto libro-dvd edito da Einaudi.


mercoledì 1 ottobre 2008

L'ultima cena a base di anguille

Leggo sul Corriere della Sera che un gruppo di ricercatori ha analizzato L'ultima cena di Leonardo da Vinci, scoprendo che la tavola sarebbe imbandita non con pane e agnello, come vuole la tradizione, ma con anguille fritte e arance, menù tipico dell'età rinascimentale...
In effetti, anche a me sembrano anguille...voi che ne dite?


(immagine tratta dal sito: http://www.haltadefinizione.com/en/cenacolo/look.asp
qualora fosse coperta da copyright, vi prego di segnalarmelo e la tolgo immediatamente)

p. s. Ma perché nessuno mi vota il songaggio? La votazione è anonima!