mercoledì 25 giugno 2008

L'Arno, Anna, i sogni, la Luna

Pubblico il racconto che è stato segnalato al concorso "Arno fiume di pensiero" 2008. In tanti me l'avete richiesto. Grazie per la fiducia preventiva! Come dicevo al mio amico Patrick non è di facile lettura. L'ho concepito più come un saggio travestito da racconto che come un racconto vero e proprio. L'operazione è riuscita nella misura in cui il lettore viene invogliato a rileggere e meditare Leopardi, poeta di pensiero, potremmo dire... Ma va bene anche se lo si considera una riflessione sulla vita e sull'amore (e sul doppio?). Insomma, vedete voi. Fatemi sapere!

L'ARNO, ANNA, I SOGNI, LA LUNA

La sera, cala dalle oreficerie un mantello d'oro che si posa e veste di luce l'Arno, proprio sotto Ponte Vecchio; o, forse, è una polvere di stelle che Dio manda al morir del Sole, perché la notte non nasconda lo spettacolo dell'arte agli innamorati. Anna ed io venivamo qui, sul ponte Santa Trinita, per vedere rinnovarsi lo spettacolo della nostra unione, chiusa nel cerchio perfetto delle fedi nuziali, che parevano attingere dall'acqua un poco di quell'oro, per risplendere più vive nelle nostre giornate di gioia del pane quotidiano. Ma ora che Anna non c’è più, ora che il dolce lume non fiere li occhi suoi, questo stesso spettacolo, un tempo dilettoso e caro, appare, ai miei affetti disperati, molle, come per Saffo la notte placida e il raggio verecondo della Luna cadente, nel suo ultimo dispregiato canto.
Era lei, Anna, a parlarmi di poesia e letteratura. Per me era un mondo sconosciuto e lontano. Quale fosse, il mio mondo, non lo ricordo. Anzi, non lo so più, da quando Anna, dolcezza mia!, se n’è gita, portandosi via il mio nome.
A scuola l’adoravano tutti: i colleghi, i genitori, gli alunni. Sono i miei bambini, diceva. Ed io, mi vergogno ma devo ammetterlo, un po’ ne soffrivo, perché ero geloso… Perché non avevamo mai avuto figli nostri. Abbiamo provato, ma niente. Ora si va dai dottori e trovano loro il modo, ma a quei tempi non stava bene. Se questa è la volontà di Dio… Così dicevamo. Ma perché Dio non ha voluto dare un figlio ad Anna? Non dico a me, ma a lei! Oppure, è proprio a me che non l’ha voluto dare? A lei ha pur dato i “suoi bambini”!

Mi chiamo Melisso. Così ci ho risposto. Fornisca le sue generalità, mi dice. Ho fatto finta che non capivo, ma io lo so cosa sono le generalità. Non ci ho nulla, gli rispondo. Questa è la mia casa. E ci indico il cartone, le buste e la bottiglia vuota del vino. Se ce n’era ancora te ne offrivo, ci ho detto, e ci ho sorriso. Ma lui mi ha fatto gli occhi cattivi. Nome e cognome, mi dice quell’altro. Io ci sorrido anche a lui. Lo sai il tuo nome? No che non lo so, ci volevo rispondere, ma poi come celo spiegavo? Così ci ho detto il primo nome che mi è venuto in mente, Melisso. Melisso? E che nome sarebbe? E il cognome? Ungaretti, ci ho risposto. Quello cattivo mi ha spinto che manca poco che cado. C’era il muro che mi ha retto, se no cadevo. L’altro parlava con una specie di radio trasmittente. Quando finisce, ci ha detto al cattivo: Dai andiamo, ci chiamano. Lascialo, non vedi che è di fuori? Il cattivo mi ha tenuto gli occhi addosso ancora per un po’ e mi ha detto: Qui non puoi stare, capito? Se quando torno ti ritrovo, ti porto in centrale. E lavati, che puzzi di piscio!

Camminavo, l’altra (o forse dovrei scrivere l’atra?) notte, lungo l’Arno. S’ella è morta, io come son vivo?, mi chiedevo, e non riuscivo a persuadermi. In alto, sopra la chiesa del Carmine, c’era un’unghia sottile di Luna. Proprio mentre la guardavo, un aereo la sfiorava, quasi volesse tagliarla. L’inganno dei sensi! Le illusioni: il più solido piacere di questa vita! L’immaginazione! Quel fingersi nel pensiero interminati spazi e sovrumani silenzi! Anna… era lei a spiegarmi che il piacere, la felicità, sono come la Luna: l’uomo vorrebbe toccarla, tanto gli sembra vicina, ma è così lontana che non la toccherà mai. E invece l’ha toccata! Nel Sessantanove. Me lo ricordo ancora: Anna ed io sulla nostra casa in via del Fosso, davanti alla tv, e Tito Stagno in bianco e nero che diceva: Ripeto, l’uomo è sbarcato sulla Luna! Hanno spento i motori! E applaudiva anche lui per l’emozione. Ma Anna no. Era scura in volto: emozionata, eppure triste. Cos’hai?, le chiedevo. E lei, con gli occhi umidi, rispondeva: Anche l’ultima illusione è caduta! Ma che dici?! Non sei contenta? Non mi sentiva. Fissava la tv e all’improvviso declamava, come parlando tra sé: Or poserai per sempre, / Stanco mio cor. Perì l’inganno estremo, / Ch’eterno io mi credei. Perì. Ben sento, / In noi di cari inganni, / Non che la speme, il desiderio è spento. Io, invece, ero elettrizzato dalla portata storica dell’evento, dalla magnificenza del progresso e dagli scenari futuri che si aprivano da quel momento alle sorti del genere umano. Proprio non capivo il suo stato d’animo. Ero lontano anni luce: nella galassia dei dubbi famelici sul nostro matrimonio. Un grillo parlante a testa in giù mi diceva che Anna era diversa da me: troppo triste, depressa…Io desideravo essere felice!

Non me lo sono inventato, il nome. Me l’ha dato uno che conoscevo. Non ricordo come si chiamava, ma tutti lo chiamavano Ungaretti, perché stava sempre a raccontare storie, a dire poesie. Dice che questo Ungaretti qui era un poeta. Un poeta vero. Qualche volta lo chiamavo anche Ungaro, così per abbreviare, perché mi veniva meglio. Qualcuno pensava che fosse ungherese, perciò lo chiamavano anche l’ungherese. In stazione lo conoscevano tutti. Veniva lì, non sempre, ma spesso, e ci portava sempre qualcosa a tutti: un cartone di vino, un maglione di lana, una coperta. Stava un po’, beveva anche lui con noi. C’era sempre il romano che ci chiedeva: A Ungaro dicce na poesia! E lui ne sapeva sempre una diversa. Ma io non l’ho conosciuto alla stazione. No. Io l’ho conosciuto prima, d’estate, al fiume. Lì alla cascata, così la chiamo io: dopo Ponte Vecchio, e pure dopo quell’altro ponte che c’ha le statue. Tra gli altri due ponti, quello e quell’altro dopo. Lì dove c’è quello spazio di cemento. Prima mi dormivo lì. D’estate, perché fa più fresco. D’inverno no, non ci si può stare. Si può anche morire di freddo, si può. Come quello lì di Roma, che è morto l’inverno scorso. Ma quello non stava qui, stava un po’ alla stazione e un po’ al Mugnone. Di là è pure peggio, che rischi che ti portano via tutto mentre che sei dormito o ti prendono a calci. Al Mugnone no, non si può stare, ma sull’Arno d’estate ci dormo bene. È lì che l’ho conosciuto all’Ungaro. Una notte ero dormito. Poi ho sentito dei rumori e mi sono svegliato. Lui era lì che tirava fuori delle robe da un sacchetto, tipo delle piccole pietre, che le buttava nell’acqua una a una, e parlava da solo. Diceva delle cose. Ei tu? Gli dico. Lui si gira e mi fa un sorriso. Mi indica col dito qualcosa e vedo che accanto a me c’era una bottiglia di vino. La prendo e bevo un goccetto, che d’era tutto il giorno che d’ero a secco. Grazie amico! Vieni a bere con me! Ci dico.

Aveva una collezione di conchiglie, Anna. Le prendeva quando andavamo a trovare i suoi zii, in Calabria. Il ricordo che ho non è delle estati, ma dei giorni di Pasqua, in primavera. L’immagine di lei, scalza ma con i pantaloni lunghi, che si china a raccogliere le conchiglie, è così viva da farmi male. Le metteva tutte in un sacchetto e poi, tornati a Firenze, le conservava in una grande bottiglia di vetro azzurro, che tenevamo in camera da letto, sulla credenza, vicino alla lampada d’alabastro, proprio sotto il suo quadro preferito: la riproduzione dell’Annunciazione del Beato Angelico.
Il giorno che ha deciso di andare da sola incontro alla nebbia, portandosi via le mie parole, io ho rotto la bottiglia e ho contato le conchiglie una ad una; e per ognuna ho versato una lacrima: Se torna maggio, eterno Sospiro mio, non torna per te! Poi, quando ho finito le lacrime, ho raccolto le conchiglie, e le ho divise in gruppi di cinquantaquattro. Ogni sera, prendevo un gruppo e lo mettevo dentro il sacchetto di velluto rosso, che lei portava sempre con sé. Andavo giù, sull’argine dell’Arno, tra ponte alla Carraia e ponte Amerigo Vespucci, dove c’è il dislivello, a recitare il mio rosario di conchiglie. C’era sempre un uomo, lì vicino al muro, che dormiva sotto un pezzo di cartone. L’ultima notte ho fatto amicizia con lui.


Abbiamo bevuto e lui mi ha subito chiamato Melisso. Mi ha detto: Odi, Melisso! E si è messo a raccontarmi una storia. Lui si credeva che ci credevo, ma lo sapevo benissimo che d’era una storia. Non ero così ubriaco che non capivo che d’era una specie di favola per i bambini. Dice che aveva fatto un sogno che la Luna era caduta lì, e indicava più in là di dove eravamo noi, dove che c’era l’erba. E dice che quando è caduta sull’erba bagnata sembrava che faceva le scintille, come se metti un pezzo di carbone acceso nell’accua. E poi si è spenta e in celo ci è rimasto come un buco nero. Allora ci ho detto che non era possibile questa cosa qui. Non ero mica scemo. E lui mi fa: Perché non ci sono le stelle cadenti? Ed io, che sono più furbo di lui, ci dico: Sì, ma le stelle sono tante. Se ne manca una, manco ce ne accorgiamo che ci sono le altre. Ma se cadeva la Luna, che d’è una sola, lo vedevamo tutti!

Mi piaceva la depravazione, mi piaceva la depravazione più ignobile. E mi piaceva la crudeltà: non sono forse una cimice, un insetto malefico? Un Karamazov, è detto tutto! No, non ero un Karamazov, ma l’ho tradita. Lei, dell’arida vita unico fiore, l’ho tradita con una più giovane, cercando la felicità nel più triste dei luoghi comuni. Una storia finita subito, bruciata al sole di un’estate. Anna non l’ha mai saputo. Eppure, da allora non è stata più felice.

Poi, dopo la notte della Luna, non è venuto più. L’ho rivisto alla stazione, l’inverno dopo. Lì lo conoscono tutti all’Ungaro. E poi l’ho rivisto di nuovo d’estate. Che di lì eravamo sempre da soli. Una notte ci aveva portato una bottiglia di rosso, che alzava il bicchiere e mi indicava l’Arno e mi diceva: Questo è il Serchio! E io ci dicevo: Ma che secchio e secchio, questo è l’Arno! E lui: Questo è il Nilo! E io credevo che d’era già ubriaco, che lo sapeva anche lui che quello era l’Arno!... Questa è la Senna!... Poi me l’ha detto che d’era una poesia di quell’Ungaretti. Allora ci siamo fatti una risata tutti e due, e abbiamo bevuto ancora. Io ci ho detto che anche a me ci piaceva di leggere e di scrivere, che quando che d’ero a squola me l’avevano imparato ma poi mio padre non mi mandava più che dovevo di lavorare. Allora l’Ungaro mi ha detto: Domani ti porto un regalo. E infatti domani mi porta questa busta, che dentro c’erano un sacco di quaderni con la copertina nera. Questi sono i miei quaderni, mi dice. Te li regalo. Ci sono anche le penne. E mi da tutte queste penne nere che d’erano tenute da un elastico. Puoi leggere quello che ho scritto in questultimo anno, se ti interessa. E puoi anche scrivere, nei quaderni vuoti. Allora io ci ho detto che non sapevo più come si mettevano le virgole e i punti, e lui si è messo a ridere e mi dice di guardare come li aveva messi lui oppure di metterli a caso. Di copiare, mi ha detto. E io ho copiato, ma un po’ sapevo scrivere di già, che ha squola ce l’aveva imparato la maestra. Che se sbagliavo la e con l’accento o la a con l’acca mi dava le bacchettate sulla mano. Ero contento che me li aveva regalati i quaderni. Dice che a lui non li voleva più e allora che a me li dava con piacere. E allora per festeggiare abbiamo bevuto, ma tanto, che l’Ungaro aveva portato due bottiglioni grandi. Poi bò, devo essermi dormito che quello che ho visto non so se l’ho visto o se d’era un sogno. Ma da quella notte all’Ungaro non l’ho visto più. Lo giuro, ce l’ho detto anche a quello poliziotto cattivo.

Arno nero.
Nutrie oscure,
terrore dei ratti.
Sangue nero.

L’ho tradita nel momento in cui era più debole. Da poco aveva saputo di essere rimasta nuovamente incinta. Fingevo di essere contento, ma anche preoccupato per lei. Non era più una ragazzina e sarebbe stata di certo un’altra gravidanza a rischio. Perciò, la lasciavo libera di scegliere, ma le suggerivo, per il suo bene, per la sua salute, di considerare questa volta la possibilità di farsi aiutare da un medico per un… intervento terapeutico. Intanto, dentro di me, custodivo il segreto del mio adulterio e meditavo sul momento più opportuno, dopo l’operazione, per lasciarla. Non ero pronto per un figlio. Non era proprio il momento. Ero ancora giovane, o almeno così mi sentivo. Era giusto che avessi accanto una donna più allegra di Anna, più contenta della vita. Pensavo così. Poi non c’era stato bisogno dell’aiuto di nessuno: Anna, ancora una volta, aveva abortito spontaneamente dopo due settimane. Neanche allora, scellerato amante, mi sovvenne de’ l’antico amore! Se questa era la volontà di Dio…

Ero ubriaco, ti ho detto. Dormivo. Però poi ho aperto gli occhi e ho visto questo qui di spalle, tutto nudo. L’ho visto bene, che c’era la Luna tonda. All’inizio non pensavo che d’era l’Ungaro. Pensavo che d’era uno così. Un matto. Ci volevo gridare: Ei cheffai? Sei matto di entrare nell’accua così tutto nudo? Ma questo qui era andato lontano, nella striscia di cemento che arriva dall’altra parte del fiume. A metà di ferma. Sta lì fermo a guardare nell’accua come che ha perso qualcosa. Forse si guardava la faccia, perché sicuro come la morte che non poteva vedere il fondo, Luna o non Luna. A un certo punto si toglie un anello dal dito, alza il braccio in alto e butta l’anello. Poi lo fa di nuovo: toglie un altro anello dallo stesso dito, lo solleva in aria e lo lascia cadere nell’accua. Poi è rimasto fermo un po’ e poi ha fatto un passo ed è caduto giù.

Dopo che Anna ha voluto dormire di più, lasciandomi nella sua parte ancora calda del letto il ricordo acerbo di lei, non ho più chiuso occhio. Così, oggi ho svuotato il tubetto, che era ancora lì, sul suo comodino. Mi sono addormentato e ho fatto un sogno. Camminavo in una notte di plenilunio, da solo, lungo il dislivello dell’Arno, tra ponte Vespucci e ponte alla Carraia. L’acqua, gelida e furiosa, mi mordeva le caviglie. Ero nudo, e pensoso di cessare dentro quell’acque la speme e il dolor mio. Avevo sete. Una sete terribile. Arrivato al centro del fiume, mi fermavo e guardavo giù: perché la corrente non mi trascinava via? Nell’acqua, straordinariamente, non c’era riflessa la mia immagine, ma una scalinata: quindici, poi altri quindici scalini, sotto un’elegante guida rossa. Poi, una svolta a destra, altri dodici scalini e… C’era un frate. Dipingeva.
Seduto sull’ultimo scalino, lo guardavo dal basso in alto aggiungere ancora un poco d’oro e poi scrivere una frase in latino: VIRGINIS INTACTE CUM VENERIS ANTE FIGURAM PRETEREUNDO CAVE NE SILEATUR AVE… La sete mi divorava, le labbra mi s’incollavano. Avrei dovuto chiedere dell’acqua, ma ero troppo curioso di sapere chi fosse quel frate e cosa stesse scrivendo. Il suo nome era Guido, ma potevo chiamarlo Giovanni. Scriveva un ammonimento per ogni visitatore che, trovandosi lì a passare, non dimenticasse di salutare la Madonna, come si conveniva alla madre di Dio, dalle cui mani amorevoli San Domenico aveva ricevuto in dono l’abito religioso. Quella polverina d’oro la raccoglieva di sera, quando dalle botteghe degli orafi di Ponte Vecchio cadeva nelle acque dell’Arno. Sembrava ben disposto a parlare e allora io, con deferenza, gli rivolgevo la domanda che mi sentivo bruciare nel petto, pensando ad Anna e a quell’altra, di cui non ricordavo più il nome: Frate Giovanni, ditemi, vi prego, che cos’è veramente l’amore? Senza voltarsi, il frate rispondeva sibillino. Ricordo solo frammenti di parole, piccole gocce d’acqua viva cadere sulla mia fronte, come in un Battesimo. Un Battesimo di frammenti, di ossimori: Considera questa donna…Eccomi sono la serva…sceglie liberamente di servire…la rinuncia come dono…l’io che muore e risorge nel noi…la libertà nel sacrificio…accettare la responsabilità…
Queste parole mi turbavano: Che cosa questa donna, sacrificando, o donando se stessa, ha liberamente e responsabilmente accettato? A questa domanda, il frate si voltava, mi guardava dritto negl’occhi e mi rispondeva: Di mettere al mondo un bambino.

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