giovedì 14 aprile 2011

Boris, il film

Boris è un discorso sul cinema, ma non è metacinema. Non lo è perché gli manca il concetto astratto, l’intento filosofico. È una satira politica sul mondo del grande e del piccolo schermo in Italia. Più in generale, è una riflessione amara sull’involuzione culturale del nostro Paese.

Perso anche il ricordo dei marinai, si sono estinti da tempo i poeti. L’Italia della crisi non è fondata sul lavoro, ma sugli espedienti per lavorare. La sovranità non appartiene al popolo, perché un popolo, semplicemente, non c’è. Tantomeno, dopo centocinquant’anni, un pueblo unido. La sovranità appartiene al pubblico, che la esercita nelle forme e nei limiti del palinsesto.

Il cinema non è la settima arte. Nella nuova gerarchia: «Prima c’è la tv, poi il cinema, poi la radio, e poi la morte». Gli attori non sono artisti, né artigiani. Sono psicolabili buoni per il lettino di uno psicologo. Il massimo che possono fare è portare sul set le maschere della commedia dell’arte. Non Arlecchino servitore di due padroni, però. Il loro padrone, semmai, è uno solo: la droga. Emarginati nella vita, pagherebbero per un primo piano. Lavorano con le parole, ma restano afoni se non hanno un po’ di coccole. Frequentano la crisi isterica, la depressione, il suicidio, l’overdose. Gli sceneggiatori, poi, non sono scrittori, non appartengono al mondo della letteratura. Sono capaci di produrre qualunque tipo di testo, ma non sanno scrivere. Cuochi da impepata di cozze. Possono discutere per ore della forma corretta di un congiuntivo, salvo poi farlo usare da quattro ragazzi-ghostwriter nel retrobottega. Se vincono un Oscar, è a un tavolo da gioco, per una mano fortunata. I registi, infine, nell’Italia della Casta, sono direttori d’orchestra senza bacchetta. Compositori su un pentagramma già scritto. Quelli di loro che ancora leggono libri, coltivano idee, si autocondannano a un divano di acari, dove consumano cene solitarie e documentari alla tv. Perché la creazione non pertiene loro, ma alla dea Produzione: l’onnisciente conoscitrice dei gusti della Gente. Il tutto sottoposto a una divinità più potente, il Denaro: «Ho fatto Ronconi, ho fatto Sorrentino… e mo’ ho fatto i sordi

E in Italia fare i soldi con il cinema significa una cosa sola: il cinepanettone. Un Leviatano emerso dagli abissi che si nutre di tutto ciò che è cultura, impegno, riflessione profonda sulle cose, arte. Un mostro allo stesso tempo selvaggio e addomesticato, come un animale da circo. Gli spettatori pagano per andarlo a vedere. E si divertono, ridono!

Insomma, un quadro desolante. Disperante come una strada senza uscita: «Non si esce dalla televisione, è come la mafia, non se ne esce se non morti». Il punto è: le cose stanno davvero così? Sì, no, forse. Che in Italia i cinepanettoni facciano incetta di incassi è un fatto. Ma che non si produca o non ci sia spazio nelle sale per un cinema di qualità non è vero. Basta guardare, per esempio, ai film italiani in procinto di partecipare, in concorso o fuori, al prossimo Festival di Cannes e scorrere i nomi dei registi che li hanno diretti: Marco Tullio Giordana, Nanni Moretti, Paolo Sorrentino, Pupi Avati, Emanuele Crialese. Senza contare che, prima ancora che la prestigiosa kermesse francese abbia avuto inizio, un vincitore c’è già, ed è per l’appunto italiano. È Bernardo Bertolucci, che il prossimo 11 maggio, durante la cerimonia d’apertura, riceverà dalle mani del Presidente della giuria, Robert De Niro, “suo” attore in Novecento, la Palma d’oro alla carriera. Dunque, forse, il cinema italiano di qualità non è morto. Magari è rimasto solo, come l’ultimo pesce rosso di cui bisognerebbe avere cura perché l’acquario non rimanga disabitato. Un pesce di nome Boris.