giovedì 25 novembre 2010

Alberto Sordi, a confronto, era un dilettante



La telefonata arriva durante l’estate. Nella città deserta, un uomo lavora. Da una parte del filo il ministro Bondi, dall’altra Nicola Borrelli, direttore generale del ministero dei Beni culturali, sezione cinema. “Dottore, allarme rosso. Un’emergenza terrificante. C’è un’amica molto cara al primo ministro bulgaro e al premier, una brava ragazza, si chiama Michelle Bonev. Dice che vuole andare al Festival di Venezia e che partecipare non le basta più. Il nostro presidente Berlusconi le ha promesso che lo vincerà e che sarà una bellissima serata, piena di luci e colori. Una serata di libertà. Lei, con il tempo, se n’è convinta e non c’è verso di farle cambiare idea”. Borrelli, ex vice di Blandini precipitato al comando nel biennio più difficile della recente storia culturale italiana, balbetta qualcosa. “Ministro, proviamo, non so se sarà possibile”. Alla prima richiesta ne seguono però altre, sempre più insistenti e una storia che sembra inventata da Age e Scarpelli diventa un frammento di realtà italiana. Passano le settimane e “l’allarme rosso” cambia di sede.

Venezia, il Festival, la celebrità. Le promesse vanno mantenute. La messa in scena è da Oscar. Una targa fasulla con il logo della comunità europea e con quello del ministero (che i ben informati raccontano ordinata in tutta fretta in una bottega romana nei giorni precedenti alla partenza della delegazione ministeriale), un premio inventato dal nulla, una gag istituzionalizzata che ha come palcoscenico il Lido e una serie di figuranti più o meno consapevoli. Ministri, parlamentari europei, claque assortite. Nel regno di Sandro Bondi, che pur avendo giurato “nell’esclusivo interesse della Repubblica”, ne ha creata una autonoma, è la normalità.
A Venezia, l’allegro gruppo in trasferta si è superato. Michelle Bonev (all’anagrafe Dragomira) non ha vinto il Leone d’oro ma ha avuto, l’impressione (alla fine ciò che conta), di farlo. L’organizzazione è diabolica. Approfittando dell’evento “Action for women”, coccarda vera per cortometraggi con giuria di alto livello (tra gli altri Tornatore, Francesca Comencini, Roberta Torre) e della confusione tematica, il piano Bonev scatta nel tardo pomeriggio. Una location defilata, la Sala Pasinetti, ed ecco uscire fuori la targa incriminata, per il film prodotto dalla Bonev “Goodbye Mama”, e coprodotto da Rai Cinema con il patrocinio del Mibac. Storia di emarginazione piena di bellone da esportazione che si trasforma in opera “dall’alto valore sociale”. L’epigrafe, solenne, a dare una parvenza di credibilità: “Premio speciale della Biennale assegnato in occasione del 60° anniversario della Convenzione europea per la Salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle Libertà fondamentali, il Ministro per i Beni e le Attività culturali”.

Avrebbero potuto darle anche l’altro perché, è innegabile, la ragazza è estremamente attiva. I primi vagiti di notorietà a Sanremo, quando al povero Baudo la affiancano in veste di opinionista nel Dopofestival edizione 2003. Pippo si incazza, ma si piega ai desideri di Agostino Saccà, sponsor ammaliato dal fascino erinnico di una bruna fanciulla di un metro e ottanta, fisico da maggiorata anni ’50. La scalata non conosce ostacoli. Una fiction con il cantore dei Barbarossa leghisti, Renzo Martinelli (La bambina dalle mani sporche) un libro pubblicato con Mondadori e una recensione (estorta) a Giampiero Mughini che per Panorama di Carlo Rossella vergò un’ironica stroncatura e si ritrovò in pagina un pezzo che paragonava la ragazza a Marguerite Yourcenar. Anni dopo, il ricordo è ancora vivo: “Mi ritrovai pubblicato un foglio ampiamente emendato in senso ruffianoide nei confronti della Bonev”.

A Venezia, oltre al ministro della cultura bulgaro, a far festa a Dragomira (Michelle), mezzo governo italiano. Giancarlo Galan, giulivo: “Il presidente Berlusconi mi ha pregato di portarle personalmente i suoi saluti più calorosi e io lo faccio volentieri con tutto l’affetto di cui sono capace”, Mara Carfagna: “Sono orgogliosa di poter omaggiare una ragazza così coraggiosa” e gli sconvolti Marco Muller e Paolo Baratta, direttore della Mostra e presidente della Biennale, chiamati in tutta fretta dalle stanze del ministero di Bondi per trovare adeguato palcoscenico al desiderio del premier e terrorizzati dalla presenza della stampa. Unici assenti, infatti, i giornalisti. Con il fantasma del malcapitato Enrico Magrelli (Film tv) dato per presente, scambiato per un turbine fonetico con Mereghetti del Corriere della Sera e vanamente atteso da Dragomira Bonev che tra un inchino e l’altro continuava a ripetere: “Dov’è famoso Magrelli de corriere de Milano?, Presidente mi ha promesso c’era, io voglio tanto abbracciare lui”. In sala, un pubblico finto, sgomento, lo stesso di certi programmi del pomeriggio tv, ravvivato da Deborah Bergamini (patrocinante del vero premio “Action for woman”), quel giorno a Venezia suo malgrado con una pletora di europarlamentari diligentemente seduti in platea. A fine serata, telefonata complimentosa di B. e nuovi, mirabolanti scenari futuri da disegnare insieme.

A chiudere degnamente l’imitazione felliniana, una lettera della Ue, anch’essa fittizia, offerta a Dragomira-Michelle, abito lilla, scollatura choc, collana di perle, colta da estasi mistica e pronta ad aggiungere la sua testimonianza al libro nero del comunismo: “Arrivai in Italia nel 1990 con solo un paio di scarpe gialle e 20 dollari in tasca. Devo molto all’Italia: la Bulgaria mi ha dato la vita ma l’Italia la libertà”. Dalle parti di Arcore, sentitamente, confermano.

Da Il Fatto Quotidiano del 23 novembre 2010

domenica 21 novembre 2010

Mi chiedo perché...


... i quotidiani italiani mettano in prima pagina la Carfagna, mentre sono state depositate le motivazioni della sentenza d'appello su Dell'Utri in cui si spiega in maniera dettagliata come il senatore abbia avuto contatti con esponenti mafiosi di primo calibro (fra cui Riina), e come di questi rapporti abbia beneficiato anche il Presidente Berlusconi.

Va bene la presunzione d'innocenza fino a sentenza passata in giudicato, ma qui siamo all'appello. Dopo c'è solo la Cassazione, che giudica sulla forma non sul merito.

Proprio non capisco. In qualsiasi altro Paese credo che una cosa del genere avrebbe preso titoli a 12 colonne su tutti i giornali. Noi invece non veniamo informati a dovere. La notizia è stata data ma in secondo o terzo piano, corredata dalla versione del condannato che, ovviamente, dice che si tratta di una favola, confermando peraltro che il boss mafioso, pluriomicida, Mangano è stato un eroe.

Perché ci facciamo prendere in giro? Forse perché siamo pigri e informarsi , nell'Italia di oggi, richiede impegno. Io ho iniziato la lettura delle motivazioni della sentenza. È una fatica enorme perché si tratta di oltre 600 pagine, e avrei altro da fare. Però lo faccio perché lo ritengo un dovere civico.

Perciò pubblico il link da cui potete scaricare le suddette motivazioni:
http://www.ilfattoquotidiano.it/2010/11/19/dellutri-sentenza-dappello-ecco-le-motivazioni/77807/

P.S. l'altra notizia di prima pagina sui quotidiani di oggi è dedicata all' "apertura" del Papa al preservativo. C'è un singolo caso in cui il profilattico si può accettare, secondo il Pontefice: «[...] ad esempio quando una prostituta utilizza un profilattico, e questo può essere il primo passo verso una moralizzazione, un primo atto di responsabilità per sviluppare di nuovo la consapevolezza del fatto che non tutto è permesso e che non si può far tutto ciò che si vuole».
Premesso che prima Ratzinger ha speso parole di buon senso sulla banalizzazione della sessualità, su cui tutti credo convengano, alzi la mano chi di fronte a questa apertura non sia indotto a farsi una grassa risata...

domenica 14 novembre 2010

Una vita tranquilla

Non è quello che vogliono tutti: una vita tranquilla? A parte Vasco Rossi, s’intende. Una moglie, un figlio, un lavoro che fa sentire realizzati. La stima della gente, che ti conosce, che sa chi sei. Rosario Russo non fa eccezione. Pur di trovare la tranquillità, ha lasciato il Casertano ed è emigrato in Germania. Ha aperto un albergo-ristorante, dove accoglie le persone facendole entrare nella sua intimità familiare, fatta di una moglie tedesca, efficiente e comprensiva; di un figlio, ancora bambino, che parla italiano ma ha i capelli tedeschi (biondi); di un amico “di giù”, con cui può essere se stesso.

La vita tranquilla, Rosario, l’ha trovata in un paesino sperduto della Germania, vicino a un bosco dove va a cacciare il cinghiale. Già, il cinghiale. Rosario deve entrare nella foresta, perché è lì che l’animale vive. Il cinghiale è selvatico, non si può pretendere che esca dal suo habitat naturale ed entri da solo in quel mondo piccolo-borghese che sta ai bordi del bosco. D’altronde, se, per assurdo, lo facesse, quel mondo lo sbranerebbe. Così, Rosario entra nella selva oscura armato di fucile. Lo vede, il cinghiale, tranquillo, grufolare. Rosario prende la mira, lo spara. Poi, lo porta fuori dalla foresta, nella cucina del suo ristorante. Infine, lo serve a tavola con un contorno di granchi. Piatto strano, è vero, ma accogliere i clienti significa anche andare incontro ai loro gusti: perciò, un bravo ristoratore come Rosario non si vergogna di cucinare meno pizze e più cinghiale con i granchi. Perché quelli sono tedeschi: mangiano tutto. E si bevono tutto.

Dopo l’esordio fortunato della commedia Lezioni di cioccolato, Claudio Cupellini firma la sua seconda regia scegliendo una storia nera. Nera come un tunnel senza uscita, come un vicolo malfamato di Gomorra, come la foresta in Germania. Come la vita di un uomo che sceglie di ucciderne un altro. La vita di un mafioso, di un camorrista. Il tema, già sfiorato in Lezioni di cioccolato, è quello della redenzione. Possibile o impossibile? Secondo il protagonista, impossibile. La sua battuta più importante, nella scena topica del film, quando si rivolge a un prete in stato comatoso, suona come una condanna, senz’appello: «A Dio non importa di aiutare la gente». Dice di essersi pentito delle cose fatte in passato, Rosario. Forse lo crede sinceramente. Ma non è così. La sua finta morte, inscenata per sottrarsi a una vita fino a quel punto sprecata nella malavita, si rivela presto un espediente pirandelliano. Come Mattia Pascal, anche Rosario Russo ha ingannato il suo passato per non farci i conti. Ma quei conti, con quel passato, bisogna farli. La redenzione passa per la via stretta e obbligata dell’assunzione di responsabilità: di fronte a se stessi, agli altri, a Dio. Dove sei? Dov’è tuo fratello? Invocare il perdono di Dio, che è Verità e Vita, mentendo sulla propria identità e avendo dato la morte: più facile che una gomena entri nella cruna di un ago.

Ecco, dunque, che la vita “suicidata” ritorna, e nella forma più stringente: l’amore del padre per il figlio. Non Mathias, il figlio “tedesco” del padre ristoratore, ma Diego, il figlio napoletano del padre camorrista. Abbandonandolo, Rosario aveva violato un primo tabù: la sacralità dell’amore; rifacendosi una vita, ne aveva violato un secondo: la sacralità della morte. Proprio come il Pascal di Pirandello nella lezione di Debenedetti.

Toni Servillo, interpretando Rosario Russo, ha reso magistralmente, in carne e sangue, questo personaggio mai epifanizzato, condannato a inseguire la tranquillità nell’impossibilità delle relazioni personali. Il cui dramma è non poter più amare, neanche una moglie, neanche un figlio. Neppure cambiando moglie, o cambiando figlio. La sua vita tranquilla è il suo inferno.

sabato 13 novembre 2010

Florens 2010

Per la settimana internazionale dei Beni culturali e ambientali, a Firenze ha preso il via "Florens 2010", un'iniziativa che, secondo la volontà dei promotori, Confindustria + Banche, dovrebbe valorizzare la cultura.

Oggi, 13 novembre, ci siamo svegliati con un prato che è cresciuto durante la notte a tappezzare piazza Duomo. Non solo, ma un David in vetroresina e polvere di marmo, che fino a ieri stava arrampicato sotto la cupola del Brunelleschi, ora è sceso a più miti consigli e si è posizionato di fronte a una delle porte laterali della basilica. Poi verrà portato in piazza della Signoria. Questo piccolo viaggio ha lo scopo di ricordare che la celebre scultura di Michelangelo in origine era destinata alla Chiesa e solo successivamente se ne appropriò la politica.

Dai banchieri medicei a quelli di oggi, il David è lo spot che reclamizza il matrimonio tra cultura ed economia.

Il prato invece è cresciuto tutt'attorno al Battistero per ricordare che il 26 gennaio 429, al passaggio delle reliquie di San Zanobi, vescovo di Firenze, un olmo secco sarebbe rifiorito, nel punto esatto in cui oggi si trova la colonna di San Zanobi, appunto, davanti alla porta nord del Battistero suddetto.


martedì 2 novembre 2010

[...] indegnità, disprezzo per i cittadini, manipolazione di denaro pubblico, intrallazzo con i petrolieri, con gli industriali, con i banchieri, convivenza con la mafia, alto tradimento in favore di una nazione estera, collaborazione con la Cia, uso illecito di enti come il Sid, responsabilità nelle stragi di Milano, Brescia e Bologna (almeno in quanto colpevole incapacità di punire gli esecutori); distruzione paesaggistica e urbanistica dell'Italia, responsabilità della degradazione antropologica degli italiani (responsabilità, questa, aggravata dalla sua totale inconsapevolezza), responsabilità, come si usa dire, paurosa, delle scuole, degli ospedali e di ogni opera pubblica primaria, responsabilità dell'abbandono «selvaggio» delle campagne, reponsabilità dell'esplosione «selvaggia» della cultura di massa e dei mass-media, responsabilità della stupidità delittuosa della televisione, responsabilità del decadimento della Chiesa, e infine, oltre a tutto il resto, magari anche distribuzione borbonica di cariche pubbliche e di adulatori.
Ecco l'elenco (...) l'elenco «morale», dei
reati commessi da coloro che hanno governato l'Italia negli ultimi trent'anni, e specie negli ultimi dieci [...]