mercoledì 31 marzo 2010

Parla come magni

"Ha vinto l'amore sull'odio e l'invidia"; "È un cupio dissolvi".

Infondo, la differenza sta tutta qui. Ed è una differenza di linguaggio. Non solo di parole ma anche di langue. Intendo dire: non è solo una differenza di messaggio ma anche di codice. Il messaggio di Berlusconi è diverso da quello di Bersani non soltanto per il contenuto, ma perché è inquadrato in un sistema, in una langue, appunto. Cioè in una struttura linguistica condivisa da una società.

La parole di Bersani, invece, non appartiene a una langue. O meglio: appartiene a una langue che non esiste più, è morta, usa solo lui, e pochissimi altri.

Per uscire di metafora e lasciare in pace De Saussure, la lingua che parla Berlusconi è la lingua italiana com'è diventata oggi. Bisogna prendere atto che nel corso degli ultimi vent'anni, guarda caso da quando siamo martellati dalle tv commerciali, si è verificata una semplificazione linguistica che ha investito le strutture sintattiche, morfologiche, lessicali dell'italiano. È inutile storcere il naso. I puristi devono rassegnarsi: il trand (uso apposta l'anglismo che li farà trasalire) è quello di un lessico sempre più povero di vocaboli, tendente verso l'italiano colloquiale popolare, e volto a veicolare messaggi elementari.

Neanche la scuola riesce ad arginare il fenomeno. Gli insegnanti che non "abbassano" il livello del proprio italiano sono destinati a non essere capiti. Lo dico da insegnante. Ogni anno mi devo rassegnare a modellare le mie lezioni al ribasso, per consentire ai miei studenti di apprendere. La concorrenza della tv, dei telefonini, dei social network è troppo forte. La lingua italiana non solo sta cambiando, è già cambiata. E i sociolinguisti, che inseguono questi fenomeni per registrarli, lo sanno benissimo.

Lo testimoniano i vari concorsi pubblici, in cui non si è assegnato nessun posto perché i candidati sono stati tutti bocciati per gravi errori grammaticali; l'aumento della leggibilità dei quotidiani (che pure ancora non riesce ad acchiappare lettori); la fine del politichese...del punto e virgola che ormai uso solo io...

Se non si conosce più la grammatica italiana, figuriamoci quella latina!

Perciò, il commento di Bersani, quel cupio dissolvi, semplicemente non lo capisce nessuno. È antistorico.

Mentre il vaffanc... di Grillo lo capiscono tutti.

E mi sembra evidente che chi vuole essere votato deve farsi capire. Di questo passo, il Pd è destinato al declino se non sarà capace di cambiare linguaggio. E per cambiare linguaggio deve saper rinnovare la propria classe dirigente. Soprattutto ringiovanirla.

Bossi non riesce più a parlare ma dal suo filo di voce ha detto una cosa sacrosanta: "la Lega è sempre in cerca di giovani da lanciare. Non è come quegli altri che non hanno più posto, perché tutti i posti sono già occupati". Allevare i giovani all'interno di un partito significa farlo parlare con il linguaggio nuovo. Non si tratta solo di facce nuove ma di parole nuove.

Ma i dirigenti del Pd, sono ancora convinti che il voto alla Lega sia un voto di protesta. Neanche di fronte all'evidenza, si convincono che è ormai un voto di governo.

E sui grillini stanno commettendo lo stesso identico errore. Il Movimento cinque stelle mi sembra la Lega degli inizi, snobbata, sminuita, sottovalutata da tutti. Nessuno si è accorto dei grillini. Ma quello che è peggio, è che nessuno se n'è accorto nemmeno ora che hanno preso dal 4 al 7 %!! Tanto quanto tutta la sinistra alternativa messa insieme, magari con l'aggiunta di Casini...!

Liquidano la cosa come un voto di protesta. Accusano Grillo di averli fatti perdere. Ma Grillo è andato sul territorio e ha ascoltato la gente, per esempio del Piemonte. Grillo sapeva come la pensavano sulla Tav. Grillo e i suoi parlano lo stesso linguaggio dell'elettorato. Non è colpa di Grillo se il Pd parla una lingua che non esiste più.

Il Pd non c'è sul territorio, perciò non si è accorto del Movimento cinque stelle. Così come non se ne sono accorti i giornali. Perché i giornalisti scrivono i pezzi chiusi nelle loro redazioni, davanti a un pc. Magari facendo copia incolla dalle agenzie e dalle rassegne stampa.

Finché sarà così, Bossi e Grillo hanno di che essere contenti.

martedì 30 marzo 2010

Come sempre vincono tutti... tranne noi

7 a 6. Sette regioni al centro-sinistra, sei al centro-destra. Quindi ha vinto, anche se di poco, la sinistra, direbbe la logica. Macché. Il Piemonte, il Lazio, il Veneto, sono le regioni più popolose. Qualcuno non prova imbarazzo a dire più importanti. Come se ci fossero italiani di serie A e di serie B. E infatti ci sono. Dai tempi dell'Unità d'Italia il Sud conta meno del Nord. Per decenni si è voluto nascondere la realtà e con essa il problema. Poi è arrivato qualcuno che di questa differenza se n'è fatto un vanto, squarciando il velo di ipocrisia egualitarista. E da allora prende una valanga di voti.

Non condivido il fondo della De Gregorio sull'Unità di oggi. Il centro-sinistra avrebbe perso per i voti dispersi nelle liste di Beppe Grillo al Nord, e al Sud un po' per mancanza di coraggio, ma anche perché sono regioni mafiose...

Con questi ragionamenti non si fa molta strada. La Lega vince perché si è radicata nel territorio, fin dall'inizio è scesa in strada, ha fatto comizi nelle piazze, ascolta la pancia della sua gente. Cosa che la sinistra imborghesita ha smesso da tempo di fare. Le case del popolo sono un reperto archeologico.

Il centro-sinistra ha perso perché non ha saputo governare. Ha affossato il primo governo Prodi, quello del 1996, uno dei migliori del dopoguerra repubblicano. Poi con D'Alema ha mercanteggiato il conflitto d'interessi, lasciandosi prendere il giro. Poi ha affossato il secondo governo Prodi, molto peggiore del primo per voler dare una poltrona a tutti. Perché non è stato Mastella, ma Veltroni a far cadere Prodi.

Il centro-sinistra ha perso perché ha governato male in alcune regioni. Perché nel Lazio il suo governatore, Marrazzo, andava a trans e pippava cocaina. Perché in Campania ha lasciato la gente in mezzo alla spazzatura e alla camorra. Perché ha candidato la Bonino, degnissima persona, per non avere il coraggio di presentare un proprio "uomo", o una propria donna. Perché forse non ha un uomo o una donna altrettanto degni della Bonino... Ma avrebbe dovuto calcolare che la Chiesa, intesa come gerarchia, conta ancora parecchio.

Il centro-sinistra perde perché non appare tanto diverso dal centro-destra. Non veicola una nuova idea di futuro, se non a parole. Vendola ha vinto perché ha saputo essere drastico e fare piazza pulita dei corrotti che c'erano nella sua giunta. La stessa decisione manca ai vertici del Pd, persi in mille ragionamenti asfittici e buoni propositi, non vedono il marcio in Danimarca. Peggio: fingono di non vederlo, purché porti voti. Come Andreotti con Lima.

Come ho già scritto in questo blog, lascino perdere i salotti televisivi, ché tanto non son capaci. Vadano in piazza a parlare e prima ancora ad ascoltare. Non basta girare durante la campagna elettorale. Bisogna farlo prima. Aprano circoli di quartiere nelle città. Si battano per un'economia diversa, che ripudi il nucleare e promuova le fonti rinnovabili. Esca dai consigli di amministrazione delle banche. Salga sui tetti con gli operai. Promuova una vera libertà d'informazione, che non è quella che più parla male di Berlusconi, ma quella che si occupa dei problemi reali del Paese. Faccia una scelta di campo seria. Non si può servire dio e mammona: stia con i cassintegrati, non con gli amministratori delegati; promuova l'integrazione culturale, proponendo progetti concreti in tutte le sedi, locali e nazionali; non stia a guardare mentre vengono sgomberati i campi rom: entri dentro prima quei campi, affianco ai preti di frontiera o alle associazioni che se ne occupano, portando i bambini a scuola o promuovendo corsi serali di italiano per gli adulti; abbia il coraggio di essere contro la morale bacchettona di certa chiesa (lo scrivo in minuscolo) e difenda una volta per tutte i diritti delle coppie di fatto; aiuti le famiglie, difendendo il lavoro dei genitori e la scuola dei figli; pensi allo stipendio degli insegnati, non al proprio; stia dalla parte della ricerca scientifica, non delle missioni di "pace"; promuovano il merito, non il nepotismo ...

E quando troverà il coraggio di fare tutto questo, lo pubblicizzi! Lo faccia sapere! Sono sempre davanti alle telecamere: mettano davanti alla telecamera le carriole de L'Aquila, i senzatetto, i braccianti vittime del caporalato, i nuovi "reclusi" dell'Asinara, i Rom, i preti di frontiera, i cittadini che s'impegnano ogni giorno per il bene della propria comunità senza averne nulla in cambio, le banche etiche, il commercio equo-solidale, le favelas di tutto il mondo, a cominciare da quelle italiane... Cosa l'hanno fatta a fare Youdem? Non se ne può più delle loro facce e delle loro parole trite e ritrite. Lascino il teatrino a chi lo sa fare meglio di loro.

In una parola, difendano la Costituzione! Ché è stata fatta da una classe politica mille volte migliore di quella attuale.

lunedì 29 marzo 2010

La pace può - Candidatura Silvio Berlusconi per il Premio Nobel per la Pace 2010

Per mondarmi dal peccato del precendente post, pubblico il seguente video, nella speranza del perdono.

Che però forse non mi merito ancora, visto che mi rimane un pensiero: ogni regime (in senso lato, non necessariamene dittatoriale, anche democratico) ha la propaganda che si merita. Gli Stati Uniti durante la II GM avevano Walt Disney, Hitler aveva Goebbels e tutto il suo apparato, Mussolini il Minculpop e i cinegiornali dell'Istituto Luce.
Noi questa.

Violo la par condicio...

...ed entro pesantemente nella campagna elettorale dando indicazioni di voto. D'altronde se lo fa il "cardinalissimo" perché non lo posso fare io, umile fedele?

Sono debitore di Stefano che mi ha segnalato questo video che pubblico. Lo dico per mettere le mani avanti e fare nomi e (non) cognomi del responsabile, in caso di repressione.

Spero si colga l'ironia. In realtà, fino a poco tempo fa non mi sarebbe piaciuto questo video, e anche oggi conservo qualche riserva. In nome del rispetto delle istituzioni, a cui mi sono educato negli anni di giurisprudenza, mi disturba un po' uno sfottò così pesante a una delle cariche più importanti dello Stato. La carica è più importante di chi momentaneamente la ricopre e dovrebbe meritare rispetto a prescindere.

Però, pensandoci bene, proprio questo rispetto che porto per le istituzioni, e per i valori costituzionali, mi fanno credere che ci siano momenti storici in cui la libertà di satira, anche al limite del dileggio, è più importante del rispetto fine a se stesso, perché realizza la libertà di pensiero e di critica, fondamentali in una democrazia. Soprattutto, se la democrazia è debole e sotto attacco da una deriva autoritaria, che mina le autorità di garanzia e tende alla concentrazione dei poteri.

So che molti non saranno d'accordo con quello che scrivo, ma tant'è: è quello che penso. E siccome internet, per il momento, consente a tutti di esprimere la propria opinione liberamente, in nome del primo comma dell'articolo 21 della Costituzione italiana, pubblico e diffondo quanto già pubblicato su youtube:


P. Alberto Maggi: Omosessualità e Vangelo su Rai 1

L'altro giorno ho guardato per caso Unomattina e non ho creduto alle mie orecchie. Posso solo dire che questi sono i preti che ho avuto la fortuna di conoscere io e che mi riconciliano con la Chiesa.

sabato 27 marzo 2010

Donne senza uomini, è ambientato in Iran nei primi anni Cinquanta. Per la precisione, nel 1953, l’anno del golpe militare ordito dalla Cia per impedire l’emancipazione del Paese dall’influenza politico-economica dell’Occidente. Tuttavia, non è un film storico. Attinge alla storia per certificare una condizione presente: la morte della libertà.

Di morte si parla nel film, dalla prima sequenza all’ultima. E l’ultima, richiamando la prima, sigilla il cerchio tombale del discorso. Una morte immaginata, certo, ma non immaginaria. Tutt’altro, reale. Tangibile. Esperibile dallo spettatore per novantacinque minuti. Una morte non passata, presente.

Munis, Zarin, Fakhiri, e Faezeh, sono quattro donne iraniane che vivono questa morte. Munis è quella che si fa carico per tutte di immaginarla e di raccontarla. Il suo racconto segue gli stilemi retorici della prosa surreale, onirica. Ma non si tratta di un sogno. Piuttosto, un incubo, declinato al passato; in quanto storico, già successo, ma che la morte iscrive nel circolo dell’eterno ritorno. Munis riesce sì a vivere la propria passione politica, liberandosi dell’educazione repressiva del fratello, ma solo nell’istante della morte. Come un cigno, la libertà canta la sua struggente canzone solo un attimo prima della fine. Zarin, giovane prostituta, vive invece la sua morte nell’anoressia, l’altra faccia dello specchio in cui è riflessa la bulimia onnivora degli uomini. Come Alice, Zarin attraversa questo specchio, ma quello che trova nel bosco non sono i fiori parlanti. Semmai quelli del ruscello preraffaellita di Ophelia, dove Zarin galleggia, ma per poco. Annegherà insieme all’amore che nessuno le ha mai saputo dare. Anche Fakhiri sa cosa significa la delusione d’amore. La sua libertà è chiusa tra parentesi: da un marito che la opprime a un amante che non la corrisponde. Faezeh, infine, sacrificherebbe la propria libertà per sposare l’uomo che ama, ma non la propria dignità in un’unione poligamica.

Quattro donne iraniane degli anni Cinquanta raccontate da una donna iraniana di oggi. Shirin Neshat, con questo primo lungometraggio continua con coerenza il suo percorso di artista. È divenuta celebre per i ritratti di donne con incise sulla pelle parole in arabo. In Donne senza uomini queste parole raccontano il dolore di un’assenza. Degli uomini, si dirà. Ma nel film gli uomini ci sono, eccome. Il punto è che non sono capaci di amare. Munis, Faezeh, Fakhiri e Zarin non sono amate, questa è la loro tragedia, che si concretizza inevitabilmente nella privazione della libertà. Perché l’amore è ontologicamente inscindibile dal riconoscimento della libertà dell’altro.

La libertà, raccontata in profondità di campo, è una strada da percorrere. Tortuosa, a tratti labirintica. In cui ci si perde, si muore, o si è costretti a percorrerla a ritroso, senza mai arrivare in fondo. La profondità di campo coinvolge lo spettatore, costringendolo come accade nella realtà a partecipare alla visione, selezionando, fra le tante cose che gli appaiono contemporaneamente all’occhio, quelle più importanti. Shirin Neshat non vuole spettatori, vuole testimoni. Con Munis in mezzo alla manifestazione di piazza, ci invita a vedere, non solo a guardare. Ad iscrivere cioè l’oggetto del racconto in un percorso conoscitivo. Quando alza il dolly fino all’ “occhio di Dio”, Neshat vuole che il pubblico sappia non più soltanto quale fosse la condizione di quelle donne iraniane degli anni Cinquanta, ma qual è la condizione delle donne iraniane d’oggi.

Da qui anche il ricorso continuo ai primi piani che, come sosteneva il critico Bela Balázs, sono la geografia di un paesaggio, in cui le cose, appunto, si danno in profondità di campo. Per il filosofo tedesco Gerg Simmel il paesaggio è una forma spirituale che vive solo in grazia dell’unificazione dell’anima. Il paesaggio delle donne di Shirin Neshat è quello della mente, in cui la loro anima, invece, si perde. Per questo è arido. Possono anche sbocciarvi dei fiori, ma poi sono troppo gracili e perciò destinati a seccarsi presto, se nessuno li vede e dà loro l’acqua di cui hanno bisogno: la libertà, che sgorga dalla fonte inesauribile dell’amore.

C’è molta morte, dunque. Ma Donne senza uomini non è un film disperato. Né tantomeno nichilista. La prosa poetica, la meravigliosa fotografia, in fin dei conti la stessa sostanza del film in quanto opera d’arte, frutto di un percorso creativo, veicolano la speranza. Lo spettatore d’essay, che andrà al cinema ben disposto a leggere una poesia, uscirà dalla sala soddisfatto e con qualche riflessione in più da fare. Lo spettatore tornato stanco dal lavoro, rischia invece di trovarlo un po’ noioso.


martedì 23 marzo 2010

Mi astengo...


No, non voglio dare un'indicazione di voto. Essendo residente in Sardegna, questo giro non mi tocca neanche.

Volevo scrivere un post sull'indicazione di voto data da mons. Bagnasco e riportata da tutti i giornali: "Non votate chi diffonde l'aborto!". Più o meno questi i titoli dei giornali di oggi.

Dico la verità: leggendo gli articoli mi sono infastidito al punto da non riuscire in qualche caso a finirli. Mi sembrava infatti evidente che si trattasse di un'entrata a gamba tesa contro la Bonino e, a questo punto, ho sentito prevalere il liberale che è in me sul cattolico che è in me: "libera Chiesa in libero Stato!".

Ero pronto a scrivere un j'accuse sul blog. Arrivare a suggerire che la Bonino sia una che vuole diffondere l'aborto mi sembrava francamente troppo. Non ho mai sentito nessuno che è "favorevole" all'aborto, semmai persone che si rendono ben conto della tragicità e del dolore insito nel gesto, ma, in casi eccezionali, lo ritengono il male minore, nello spirito della legge 194. Francamente, conoscete qualcuno che faccia propaganda all'aborto? "Fate come vi pare e poi abortite?" Io no.

A scanso di equivoci, io sono sempre stato contrario all'aborto. E continuo ad esserlo. Però la mia coscienza è stata più di una volta scossa da casi in cui effettivamente l'aborto mi è sembrato il male minore, per il bambino e per la madre. Casi in cui ho pensato, decontestualizzandola, me ne rendo conto, alla frase evangelica: "Meglio per quell'uomo che non fosse mai nato!" L'ultima volta, mi è successo qualche giorno fa, quando ho letto la notizia di quel bambino di otto mesi che sarebbe stato massacrato dai genitori durante un festino a base di coca.

Insomma. Volevo scrivere che è ingiusto dire che la Bonino diffonde l'aborto tanto quanto dire che la Chiesa diffonde la pedofilia, per esempio.

Poi però ho letto la prolusione di Bagnasco e, come sempre accade, leggendo direttamente la fonte ho scoperto che la sintesi giornalistica è stata, in linea di massima, molto parziale e superficiale.

Il punto in cui si parla dell'aborto è nella prolusione argomentato e, in particolare, il passaggio in cui si esprime preoccupazione per i nuovi farmaci che fanno "scomparire l'aborto", facendolo passare dalla sfera sociale a quella domestica, merita a mio avviso di essere preso in considerazione, perché non è una riflessione banale. Peccato che la decadenza dei quotidiani italiani li porti a cercare il titolo ad effetto e la polemica di bassa partigianeria politica piuttosto che il sano sforzo del pensiero dialettico.

Con questo non voglio dire che sono d'accordo con Bagnasco. Solo, preferisco astenermi da un giudizio troppo netto e definitivo. Ma un giudizio lo voglio pur dare: il sillogismo "condanna dell'aborto - voto conseguente alle elezioni" mi lascia perplesso. Avrei voluto lo stesso rigore logico-consequenziale nella condanna della pedofilia, cui avrebbe dovuto far seguito l'esplicita indicazione di denunciare i preti pedofili all'autorità giudiziaria. Le parole del papa, infatti, che pure richiamano al dovere di rispondere a Dio e "ai tribunali debitamente costituiti", possono essere intese come un invito al "peccatore" di costituirsi, ma non al testimone di denunciarlo. Per esempio, mi sarei aspettato che ai vescovi e ai preti che ricevono in confessione un prete pedofilo fosse detto chiaramente: "non siete autorizzati a dare l'assoluzione finché il peccatore non abbia intrapreso un percorso pubblico di pentimento attraverso l'atto del costituirsi all'autorità giudiziaria". O qualcosa del genere. Insomma, sillogismo per sillogismo, non solo una condanna netta ma anche una prassi da seguire.

Ma mi rendo conto che non si deve tirare il papa per la giacchetta. Certo è che della prolusione di Bagnasco è passato solo il messaggio che il Vaticano non vuole che si voti la Bonino. Ed è un peccato, per la prolusione stessa e per i suoi contenuti, condivisibili o meno, ma certo meritevoli di una lettura e una riflessione più attente.

Ma è un peccato anche per la credibilità morale della Chiesa, già tremendamente scossa dai casi di pedofilia. Se potessi dare un suggerimento al cardinale Bagnasco, vista magari la nostra passata militanza fucina, è di rivitalizzare quest'autorità esercitandola con altrettanta durezza per esempio nella condanna di quei mafiosi, come si presume l'ultimo arrestato, l'"architetto", che vengono spesso definiti nei giornali come "molto cattolici".

Visto che il tale era impegnato in politica, e che non si può fare a meno di indirizzare le coscienze dei cattolici a votare per benino (non per bonino, per carità!!), perché non dare una bella indicazione di non-voto per tutti quei partiti che candidando mafiosi diffondono la mafia?

Così, faccio per dire...non me ne voglia Eminenza.

sabato 20 marzo 2010

Giornata della memoria per le vittime delle mafie

La primavera non è ancora arrivata, ma le scolaresche in gita sì. Per fortuna, Firenze è una città di vicoli e vicoletti, e basta scostarsi dalla strada principale e prendere la parallela per camminare tranquilli, a volte senza incontrare nessuno.

A me capita spesso di farlo. Aggiro piazza della Signoria, evito via de' Calzaiuoli, non mi avventuro nei portici della galleria degli Uffizi.

Ormai conosco le strade, non mi perdo più. Ma all'inizio, nel 1993, ero appena arrivato a Firenze e difficilmente mi avventuravo in percorsi sconosciuti. Certo, ogni tanto mi capitava di curiosare cosa c'era dietro gli Uffizi, magari una trattoria, un vinaino, un negozietto di artigianato...

Non quella sera, tra il 26 e il 27 maggio. Ero stato fuori a cena, da amici, e si era fatto tardi. L'indomani dovevo andare in facoltà, probabilmente avevo lezione presto. Non era il momento di passeggiare, dovevo fare la via più breve per tornare a casa. Per questo scelsi di non passare dagli Uffizi e fare il lungarno, come spesso mi capitava per godermi ponte vecchio di notte, ma tagliai per piazza della Signoria, poi la piazza del porcellino e via.

In meno di dieci minuti arrivai a casa. Il tempo di infilarmi il pigiama, mettermi a letto, spegnere la luce e...

Ricordo il boato. Il mio coinquilino uscì dalla sua stanza e mi chiese se fosse stato un fulmine. Ma io so riconoscere il rumore di una bomba. Quando ero ancora a Nuoro la misero al mio vicino di casa, facendogli saltare il garage. Questa però mi sembrò più grossa. E vicina.

Aveva fatto tremare i vetri, ma per fortuna nessuno si era rotto. Tempo cinque minuti e sentimmo le ambulanze che ci tolsero ogni dubbio. Andai a letto con un misto di curiosità e preoccupazione. Non mi rendovo bene conto. Come potevo immaginare?

Solo l'indomani scoprii che cinque persone erano morte. Fra di loro Nadia, di nove anni, e sua sorellina appena nata.

Ieri sono passato di nuovo per via dei Georgofili. Volevo evitare i turisti con il naso per aria. Mi sono fermato come faccio di solito a rileggere la poesia "premonitrice" di Nadia. C'è una targa che la riporta e ora anche il foglio fotocopiato del suo quaderno.

Quelle parole sul tramonto... Quel verso, "è già sera tutto è finito", scritto tre giorni prima di morire, mi mette i brividi. Tutte le volte.

Oggi è la giornata della memoria delle vittime delle mafie. C'è una manifestazione di "Libera" a Milano. Ma non troverete la notizia in prima pagina. Dovrete aspettare per vedere in tv il discorso di don Ciotti.

A Roma c'è un'altra manifestazione, un altro discorso, di uno che ha definito eroe un boss della mafia.

giovedì 18 marzo 2010

Invictus


Il personaggio principale è Nelson Mandela, ma non è una biografia. Invictus prende in considerazione solo una parte della vita di Mandela: partendo dal giorno della sua liberazione, il fuoco dell’obiettivo è posto sul periodo successivo alla sua presa del potere, dopo le elezioni del 1994. Mentre in Ruanda gli Utu si vendicavano dei Tutsi in uno spaventoso genocidio, il Sudafrica riusciva ad affrancarsi dall’odio razziale, prima con la fine dell’apartheid, e poi con l’intraprendere il difficile ma coraggioso cammino della pacificazione nazionale. È questo cammino che il film racconta.

È il racconto, in ultima analisi, di una vittoria: la vittoria del popolo sudafricano contro se stesso. Contro il male che si è portato dentro per troppo tempo. Per questo, quale miglior artificio narrativo del ricorrere a una vittoria sportiva, quella degli Springboks ai mondiali di rugby del 1995, disputatisi proprio in Sudafrica? La vittoria di una squadra che diventa la vittoria di un popolo.

Questa fu l’intuizione politica di Mandela. Fra la prima scena, un campo verde dove i bianchi giocano a rugby e dall’altra parte della strada un campo sterrato dove i neri giocano a calcio, e l’ultima, dove i neri giocano a rugby, c’è il racconto del percorso di liberazione di un uomo che, diventato il primo Presidente nero del suo paese, poteva intraprendere la strada di tanti capipopolo africani che, per assecondare la sete di vendetta del proprio gruppo etnico, hanno portato e continuano a portare alla distruzione i propri paesi. Oppure avrebbe potuto crogiolarsi nel suo mito, abbandonandosi alla corruzione politica e morale, per rifarsi dei ventisette anni di privazioni patite in galera. Invece, consapevole di aver già vinto con la fine dell’apartheid, Mandela ha voluto rimettersi in gioco, rischiando tutto, perfino il suo consenso, feticcio di troppi pseudo-leaders, per darsi un obiettivo ancora più ambizioso, la vittoria finale: il perdono e la riconciliazione fra i bianchi e i neri. Un’impresa titanica, che diventa possibile grazie all’uso politico di uno strumento (non la strumentalizzazione politica!), lo sport, apparentemente debole ma in realtà capace di sprigionare una forza emotiva in grado di unire le masse, e che ha il pari solo nella musica. Se poi le due forze si uniscono, grazie all’inno nazionale, ogni impresa è possibile.

Un politico che, giunto al potere, non pensa al suo particulare ma al bene del popolo, non solo a quei tempi e in quei luoghi, ma in tutti i tempi e in tutti i luoghi, diventa giocoforza un eroe, un mito. E Mandela lo è diventato nella considerazione di tutti. Da qui il rischio di cadere nell’agiografia che il regista, Clint Eastwood, ha scongiurato trasferendo tutto il pathos, tutta l’epicità, nell’impresa sportiva, attraverso l’uso sapiente della steadycam. A raggiungere l’obiettivo ha contribuito poi la recitazione per sottrazione di Morgan Freeman, perfetto nel ruolo che per anni ha sognato di interpretare, che ci restituisce un Mandela non invincibile ma invitto, ossia non rassegnato, non sconfitto; padrone del proprio destino, come recitano i versi della poesia di William Ernest Henley, che diedero forza a “Madiba” nel metro quadrato della sua cella e che, nella finzione cinematografica, danno forza anche al capitano degli Springboks, François Pienaar, interpretato da un biondissimo Matt Damon.

Invictus è dunque un film importante, come spesso sono quelli di Eastwood, e in questo caso un po’ in controtendenza rispetto alla sua precedente filmografia che, come ha notato il New York Times, si è sempre soffermata, sia davanti che dietro la macchina da presa, più sui meccanismi psicologici e sulle conseguenze della vendetta che del perdono.



lunedì 15 marzo 2010

Un sito dedicato ad Alda Merini

Ho già dedicato un post, tempo fa, ad Alda Merini, in occasione della sua scomparsa. Ora mi limito a segnalarvi un sito a lei dedicato, che è stato aperto da poco dalle sue quattro figlie. Vale la pena visitarlo: ci sono le sue poesie, ma anche video, articoli ecc.
Ecco il link: http://www.aldamerini.it/