giovedì 18 marzo 2010

Invictus


Il personaggio principale è Nelson Mandela, ma non è una biografia. Invictus prende in considerazione solo una parte della vita di Mandela: partendo dal giorno della sua liberazione, il fuoco dell’obiettivo è posto sul periodo successivo alla sua presa del potere, dopo le elezioni del 1994. Mentre in Ruanda gli Utu si vendicavano dei Tutsi in uno spaventoso genocidio, il Sudafrica riusciva ad affrancarsi dall’odio razziale, prima con la fine dell’apartheid, e poi con l’intraprendere il difficile ma coraggioso cammino della pacificazione nazionale. È questo cammino che il film racconta.

È il racconto, in ultima analisi, di una vittoria: la vittoria del popolo sudafricano contro se stesso. Contro il male che si è portato dentro per troppo tempo. Per questo, quale miglior artificio narrativo del ricorrere a una vittoria sportiva, quella degli Springboks ai mondiali di rugby del 1995, disputatisi proprio in Sudafrica? La vittoria di una squadra che diventa la vittoria di un popolo.

Questa fu l’intuizione politica di Mandela. Fra la prima scena, un campo verde dove i bianchi giocano a rugby e dall’altra parte della strada un campo sterrato dove i neri giocano a calcio, e l’ultima, dove i neri giocano a rugby, c’è il racconto del percorso di liberazione di un uomo che, diventato il primo Presidente nero del suo paese, poteva intraprendere la strada di tanti capipopolo africani che, per assecondare la sete di vendetta del proprio gruppo etnico, hanno portato e continuano a portare alla distruzione i propri paesi. Oppure avrebbe potuto crogiolarsi nel suo mito, abbandonandosi alla corruzione politica e morale, per rifarsi dei ventisette anni di privazioni patite in galera. Invece, consapevole di aver già vinto con la fine dell’apartheid, Mandela ha voluto rimettersi in gioco, rischiando tutto, perfino il suo consenso, feticcio di troppi pseudo-leaders, per darsi un obiettivo ancora più ambizioso, la vittoria finale: il perdono e la riconciliazione fra i bianchi e i neri. Un’impresa titanica, che diventa possibile grazie all’uso politico di uno strumento (non la strumentalizzazione politica!), lo sport, apparentemente debole ma in realtà capace di sprigionare una forza emotiva in grado di unire le masse, e che ha il pari solo nella musica. Se poi le due forze si uniscono, grazie all’inno nazionale, ogni impresa è possibile.

Un politico che, giunto al potere, non pensa al suo particulare ma al bene del popolo, non solo a quei tempi e in quei luoghi, ma in tutti i tempi e in tutti i luoghi, diventa giocoforza un eroe, un mito. E Mandela lo è diventato nella considerazione di tutti. Da qui il rischio di cadere nell’agiografia che il regista, Clint Eastwood, ha scongiurato trasferendo tutto il pathos, tutta l’epicità, nell’impresa sportiva, attraverso l’uso sapiente della steadycam. A raggiungere l’obiettivo ha contribuito poi la recitazione per sottrazione di Morgan Freeman, perfetto nel ruolo che per anni ha sognato di interpretare, che ci restituisce un Mandela non invincibile ma invitto, ossia non rassegnato, non sconfitto; padrone del proprio destino, come recitano i versi della poesia di William Ernest Henley, che diedero forza a “Madiba” nel metro quadrato della sua cella e che, nella finzione cinematografica, danno forza anche al capitano degli Springboks, François Pienaar, interpretato da un biondissimo Matt Damon.

Invictus è dunque un film importante, come spesso sono quelli di Eastwood, e in questo caso un po’ in controtendenza rispetto alla sua precedente filmografia che, come ha notato il New York Times, si è sempre soffermata, sia davanti che dietro la macchina da presa, più sui meccanismi psicologici e sulle conseguenze della vendetta che del perdono.



Nessun commento: