lunedì 18 gennaio 2010

Sovrastrutture e unicità

Devo prendere un libro in prestito. Lo cerco in Biblioteca Nazionale. Niente. Qualcuno è arrivato prima di me. Ce ne sono tre copie a Lettere. Una solo in lettura, l'altra già in prestito, la terza disponibile. La prenoto online. Ci vuole il numero di matricola e la password. Naturalmente, non ricordo assolutamente la password, perciò, dopo averla cercata per un'ora scartabellando tutti i foglietti volanti della scrivania, inizio la trafila per il "recupero password". Ci metto un po' per capire come si fa, ma alla fine mi mandano una mail con scritto "La tua password è...". Ah, già! Che cretino! Me la scrivo dappertutto, a cominciare dal cellulare.
Bene. Ora ho tutti gli strumenti per prenotare la mia copia online. Riempio tutti i campi e... "La copia non può essere data in prestito perché è disponibile".
Che CACCH... vuol dire?! Cos'è, una presa per il ...?
No. A quanto pare si può prenotare solo una copia che è già in prestito. La burocrazia mi toglie il senso dell'umorismo. In effetti, ci sarebbe da ridere, se non ci fosse da piangere.
Dunque, vado in Facoltà. Ci sono ancora i modulini rosa, come ai miei tempi. So cosa devo fare. Riempio tutti i campi e consegno. Tutto liscio. La segretaria si occulta nei meandri degli scaffali e risorge...senza il mio libro.
"Lei è sicuro che era disponibile?" "Certo!" Controlla sul pc: "Risulta disponibile, in effetti. Però non c'è." "Ah. E come mai?" "Boh, forse è fuori posto. O forse è in lettura." "Ah. E come faccio?" "Provi in via del Parione, a Scienze della formazione. Lì ce n'è una copia."
Vado. Arrivo al portone della Facoltà e trovo le scalinate allagate. Salgo qualche gradino e mi accorgo che il cortile è invaso dai muratori. Uno sta innaffiando con una pompa tutto il corridoio. Ecco da dove veniva l'acqua! Mi affaccio: "Scusi, posso entrare?" Il muratore mi guarda storto, continua a innaffiare e mi fa un cenno con la testa, dal basso in alto. Interpreto: "Entra". Non finisco neanche la rampa di scale, che un signore mi apostrofa: "Ma lei dove voleva andare?" "In biblioteca. Devo prendere in prestito un libro." "La biblioteca non è più qui da tre mesi. Ora è in via Laura." "Dove c'era Giurisprudenza?" "Si".
Buono a sapersi. M'incammino. Per fortuna Firenze non è Milano o Roma. Si raggiunge tutto a piedi. Rimane il fatto che sono uscito da più di un'ora e ancora niente libro.
Passo per piazza Santissima Annunziata. Degli operai stanno montando dei cartelloni giganti. Faccioni in primo piano su sfondo bianco. Non c'è bisogno di leggere per capire che è Toscani.

Arrivo in via Laura. So bene dove devo entrare. Al numero 46. Lì dove sono entrato la prima volta quando avevo 18 anni. Sembra un secolo fa. Stesso corridoio. A sinistra l'aula magna, dove credevo di laurearmi. Finito il corridoio c'è una porta, come allora. Entro. L'atrio è quasi uguale. C'è la cabina dei bidelli, il bar sulla destra... La biblioteca dev'essere lì... infatti c'è. Stesso corridoio, però...

Tutto ristrutturato. La distribuzione degli spazi è la stessa, solo che è tutto nuovo. C'è più marmo. Bianco. Troppo bianco. Troppo pulito. Improvvisamente, ho freddo.

È tutto lì, dov'era prima. Ma è tutto diverso. La biblioteca è diversa. Non è più sul verde. È sul grigio. Non ci sono più i tavoloni. Ci sono i tavolini, ognuno con la sua lampada.

Tutto nuovo ma sempre lì dov'era prima. È come nei sogni. Avete presente quella sensazione inquietante che si prova in certi sogni? Tipo che entri a casa tua, è casa tua, ma è arredata diversamente, e non ci abiti più tu ma altre persone. Ecco. Una cosa del genere.

Sono lì, dove sono stato. Ma non ci sono più. Non ci sono più i ragazzi in cappotto, le ragazze in calze e tacchi. Quelle ragazze troppo alte, quei ragazzi troppo biondi. Queste sono ragazzette basse, con scarpe basse, jeans sdruciti, sciarpone di lana al collo, capelli arruffati. Dove sono i figli di papà?

Mi avvicino al banco. Un impiegato, avrà la mia età, ha un cartellino con scritto "Part time", tanto per non farsi illusioni... mi dice come devo fare. Il libro lo posso prendere da solo, è a "scaffale aperto". Mi spiega cosa vuol dire, poi mi accompagna e me lo prende lui. Fa tutto lui. Io riesco solo a dirgli "Qui era tutto diverso, quando c'era Giurisprudenza..."

Ottenuto finalmente il prestito, esco dalla biblioteca. Tra parentesi, ora ci sono gli armadietti. Prima non c'erano. Buttavamo gli zaini ai piedi dei tavoli. Ora è tutto più ordinato. Asettico.

Sto per uscire, ma prima non resisto alla curiosità di salire a vedere cosa c'è nei piani superiori. Al primo piano, uffici. Lì dove c'era la mitica aula 6, duecento posti a sedere o giù di lì, monitor appesi al soffitto per consentire anche alle ultime file di vedere il professore. Lì, dove dovevi arrivare un'ora prima per trovare posto, e spesso non lo trovavi lo stesso perché con le sciarpe occupavano file intere, e allora, se non avevi amici che occupavano, ti sedevi per terra. E io ero sempre seduto per terra. Ecco, proprio lì: uffici.

Non salgo al secondo piano. Che senso ha? Mi ha preso un groppo in gola. Chissà perché. Riscendo. Nel pianerottolo, mi rivedo ad attaccare il manifesto della Fuci, quando avevamo organizzato un ciclo di incontri sulla Bibbia. Ci avevano aiutato gli studenti di sinistra, i ciellini invece ci avevano strappato i manifesti. Proprio lì, sul muro, dove prima era un pasticcio di volantini e manifesti uno sull'altro, e ora invece è solo marmo liscio.

Uscendo, lo stesso corridoio di prima, quando sono entrato. Sulla destra, questa volta, l'aula magna. Sempre quella dove mi immaginavo a discutere la tesi. In abito di Armani, con i miei genitori elegantissimi, ecc. ecc. Perché Armani? Perché mi immaginavo ricco. Perché pensavo di essere borghese. Perché a Nuoro forse lo ero, e pensavo di esserlo anche a Firenze. Ma per quei ragazzetti troppo biondi in cappotto, che erano proprio in questo stesso corridoio, dove ora c'è solo questo sfigato che si fuma una sigaretta prima di uscire, per quei ragazzetti, dicevo, ero solo un fuorisede. Cioè l'extracomunitario dell'Università.

Ora capisco che erano solo sovrastrutture che avevo io in testa.

Tornando a casa, ripasso per la piazza. Di nuovo i cartelloni di Toscani. Leggo una scritta: "Ogni uomo è unico". Chissà se allora lo sapevo. Di essere unico, intendo. Forse mi credevo meglio di quello che ero. Forse lo ero, migliore. Forse quell'unicità stava diventando solitudine. Forse ero nella sovrastruttura sbagliata. In quella di Lettere mi ci sono trovato meglio.

Ora però in quale sovrastruttura sono? In quale unicità?

sabato 9 gennaio 2010

Io, loro e Lara - recensione

Si è aperta una querelle a margine dell’uscita nelle sale di Io, loro e Lara, l’ultimo film di Carlo Verdone. Sulle pagine del Corriere della Sera, Vittorio Messori, insolitamente nei panni del recensore cinematografico, ha giudicato il finale solo apparentemente lieto, ma in realtà “scettico” o addirittura “nichilista”, nella misura in cui lascia sostanzialmente i personaggi con i loro problemi e i loro vizi (in una parola, i loro peccati), con un sorriso bonario e indulgente, come di chi pensa che nulla possa cambiare. Sempre sulle pagine del Corriere, Carlo Verdone ha replicato che, invece, i suoi personaggi si ritrovano uniti a conclusione di un percorso che li ha visti inizialmente divisi; condizione questa tutt’altro che nichilista ma anzi carica di speranza.

Ognuno può farsi a riguardo la sua opinione. Certo è che il regista romano si è sentito punto nel vivo per quell’aggettivo, “nichilista”, ma non si è reso conto che, fra le righe di una recensione in apparenza assolutoria, in realtà Messori ha colto, en passant, dei difetti più sostanziali. Lo scrittore cattolico ha ravvisato infatti una “mancanza di approfondimento” teologico, ma anche “nulla di nuovo né di scavato” nella crisi di fede di don Carlo, il personaggio interpretato da Verdone. Ora, sul primo appunto, nulla quaestio: stupisce semmai che Messori si aspettasse un approfondimento teologico da una commedia, forse ingannato dall’errato paragone con Woody Allen. Riguardo invece la crisi di don Carlo, vale la pena soffermarsi. Quando il carattere di un personaggio non è ben delineato, manca di profondità, non viene ben interrogato e sviscerato prima di essere raccontato, ci si trova di fronte a un errore di scrittura. Si tratti di letteratura o di sceneggiatura, un personaggio, soprattutto se è il protagonista, per non rimanere un semplice abbozzo, uno schizzo, deve essere conosciuto dallo scrittore che lo crea sin nelle pieghe più recondite del suo carattere e della sua psicologia. Per non essere un aborto, o anche semplicemente nascere così prematuro da richiedere l’incubatrice, ha bisogno dei suoi “nove mesi” di concepimento, e di doglie: deve essere partorito nel dolore (ecco l’appunto teologico per il taccuino di Messori!).

Don Carlo non è un aborto ma un parto prematuro. Non sembra un missionario in crisi, ma Verdone con l’abito talare. Il padre dongiovanni, con parrucchino color Biscardi, che tresca con la badante moldava, il fratello cocainomane, le nipotine Emo: troppi casi umani nella stessa famiglia. Più caricature che caratteri. Nessuna traccia di un’educazione cattolica che renda plausibile una vocazione (sebbene le vie del Signore siano certamente infinite). Ciò evidenzia un difetto di scrittura, che non si può giustificare con la scusa che si tratta di una commedia. La commedia è un’arte nobile, molto difficile peraltro. Chissà perché, invece, in Italia dev’essere sempre leggera, o senza pretese, da “cinepanettone”. Forse per mascherare una mancanza di talento? No, per questo fa più rabbia. Verdone, Pieraccioni, i Vanzina, il talento ce l’avrebbero, ma troppo spesso sembrano trascurare la fatica della scrittura, che è la base di un buon film.

Io, loro e Lara, ha una trama interessante, più per quello che poteva dire che per quello che è riuscita a esprimere. Voleva essere un affresco sulla nostra disastrata società, sul suo disorientamento per la perdita dei valori, non una semplice accozzaglia di gag e battute (che pure ci sono e, qua e là, anche divertenti). Poteva esserlo, ma aveva bisogno allora di qualche primo piano della Chiatti in meno e di una riflessione maggiore; di un approfondimento delle cause, sociali e psicologiche; magari di un pizzico in più di “politicamente scorretto”. Tutti ingredienti che sarebbero sicuramente dispiaciuti a Messori, ma almeno non l’avrebbero portato a parlare di nichilismo. Tutti ingredienti di una commedia non leggera.

martedì 5 gennaio 2010

Intervallo

Tornare in Sardegna per le feste significa innanzitutto lasciare i meno dieci gradi e immergersi nei ventidue alle sette e quaranta del mattino. In un'alba così:Quel tepore, così fuori luogo in inverno, è un percorso a ritroso nel tempo, fino alle origini. Quell'acqua placida è amniotica. Lo stravolgimento dunque delle coordinate spazio-temporali. Insomma una sospensione, un intervallo. Un ritorno a ciò che si conosce da sempre, a ciò che si è. Un ritorno a casa, nel senso del ritorno in sé. Da qui, la sensazione del conforto, del ritrovare, del ritrovarsi. Un piacere non puramente mentale, ma fisico nel metafisico. Totale, avvolgente. E, tuttavia, consapevolmente passeggero, come un cioccolatino che si scioglie nel palato, troppo presto, lasciando il desiderio urgente di un altro.

Fare il turista nella propria città, in quella dove si è cresciuti, è come guardarsi dall'alto. Essere spettatori del film di cui si è al contempo protagonisti, della propria vita. Quel marciapiede che si è lasciato calpestare dai nostri piedini nei sandali con gli occhi e i calzettoni, quella scuola che ci ha fatto da mamma nell'azzurro del nostro grembiulino, quel vicolo attraversato di corsa per raggiungere i giardini e giocare a pallone...

...ritrovare le proprie radici, tradizioni... è in definitiva il modo di essere, di pensare, di relazionarsi, che è strettamente legato al luogo e al tempo. Di nuovo le coordinate di spazio e tempo: la gabbia culturale di noi occidentali. Chissà com'è per gli orientali. Quale sarà la loro gabbia? Che poi, perché gabbia? No, piuttosto ragnatela. Quei fili sottili, quasi invisibili, tessuti da altri prima che da noi, in cui siamo da sempre o forse da prima di sempre, in cui sappiamo come muoverci, d'istinto, ad occhi chiusi.

In concreto, lasciare Firenze per la Sardegna è un salto spazio-temporale anche dal punto di vista culturale. Dall'Umanesimo al "Naturalesimo", se mi si passa il brutto neologismo. Dall'architettura al materiale. Dalla cupola del Brunelleschi alla roccia nuda, nuragica. Dal materiale alla materia. Dalla rielaborazione filosofica all'esperire. Da Ficino al pastore errante della Sardegna. Dalla massima raffinatezza speculativa sull'essenza di una roccia all'ingenua ricerca di senso seduti su una roccia.

Ingenuità per certi versi commovente quando pretende di porsi allo stesso livello... Nuoro, l'Atene sarda... All'ingresso della casa di Grazia Deledda c'è un grande pannello, a proposito di roccie:
Ma non è solo questo. Bisogna dare a Cesare quello che è di Cesare. C'è, a Nuoro, una realtà culturale che proietta la città nel futuro: il Man. La mostra in corso, purtroppo ormai agli sgoccioli, dedicata a Fabrizio de André, è all'avanguardia per come riesce a declinare l'arte secondo i canoni contemporaneistici: visività e interattività. Il tutto, fortunatamente, in un percorso lineare, che guida il fruitore-spettatore, troppo spesso, nelle mostre di arte contemporanea, abbandonato al caos della percezione a cui non si riesce a dare un senso. Guidare lo spettatore, dandogli una direttrice da seguire, è diventato, negli allestimenti più recenti, un tabù, chissà perché. Una cosa da non fare o da non dire, una bestemmia. Quasi fosse una negazione dell'arte imbrigliarla in delle coordinate di senso. Una cosa vecchia, superata fin dai primi esperimenti dell'arte non figurativa.
Invece, anche l'arte non figurativa è superata. E se l'arte fine Novecento-primi del nuovo millennio è evento, non vuol dire che per essere tale debba essere per forza arbitrio del Caos. O che debba necessariamente disorientare. Si possono offrire delle coordinate come suggerimenti, e si può recuperare la libertà (dell'artista e del fruitore-spettatore) lasciando spazio all'interattività, che altro non è che la forma della comunicazione contemporanea. La messa in relazione dei nostri tempi. La tecnologia ha aperto questi orizzonti. L'arte che li vuole esplorare, e che vuole essere fruita (il che non è detto), deve dunque usare la tecnologia.
La mostra al Man realizza tutto questo, dando la possibilità al visitatore di vedere; rielaborando, personalmente esperire i contenuti; interagire, partecipando così alla creazione artistica.
Questa è, o dovrebbe essere secondo me, l'arte contemporanea. Di più: questa è, o dovrebbe essere secondo me, la cultura: non memoria di cose passate, ma bagaglio comune, trasportato da gambe che camminano in avanti, verso il futuro. Un bagaglio che dovrebbe essere portato da più gente possibile, da tutti. E a cui tutti, nessuno escluso, possono aggiungere qualcosa. Perché tutti hanno la dignità per partecipare: colti o incolti, piccoli o grandi, inseriti o emarginati.

Tutti devono essere assolti, tutti devono essere coivolti.

Chissà se Fabrizio è d'accordo con me...