lunedì 20 luglio 2009

Commemorare Borsellino

19 luglio 1992

Era l'anno della maturità. Era quasi due mesi dopo l'attentato al giudice Falcone: la prima volta che piansi davanti alla tv. Un pianto di rabbia, lo ricordo benissimo, non di disperazione. Per un po', troppo poco, avevo sperato che Giovanni Falcone e Francesca Morvillo fossero sopravvisuti. Li avevano portati in ospedale che erano ancora vivi, così dicevano i primi tg in edizione straordinaria. Ma, quasi subito, la speranza era stata soffocata dalla notizia della morte. Da lì la rabbia, le lacrime. Il senso d'impotenza.


Nei giorni successivi, ecco risorgere quella speranza in un nome e un cognome: Paolo Borsellino. Avevo da poco compiuto 18 anni, non sapevo chi fosse il giudice Borsellino. Lo vidi per la prima volta alla tv, in uno dei tanti servizi (li vedevo tutti, in una smania di sapere) dedicati a Falcone. Era un'intervista, una delle tante di chi conosceva il giudice ammazzato dalla mafia. Capii subito, però, che Borsellino era quello che era stato più vicino a Falcone. Era un altro lui. Per questo, trasferii la speranza su Borsellino. Per questo sentii forte l'urgenza che sentiva lui. Bisognava fare presto, diceva Borsellino, bisogna scoprire chi ha ucciso Falcone, perché non c'era tempo. Anche io sentivo che non c'era tempo. Anche io temevo che lui sarebbe stato il prossimo.

Non so perché lego la notizia della morte di Borsellino al pellegrinaggio a Lourdes. Quegli erano gli anni in cui, verso fine giugno, primi di luglio, era per me immancabile l'appuntamento con il pellegrinaggio. La preoccupazione per la maturità non raggiungeva quella di vedermi fissare l'orale troppo tardi, ed essere costretto a rinunciare al pellegrinaggio. Non ero un beghino: a Lourdes andavano molti miei amici, e si faceva un'esperienza di vita fortissima, molto dura ma anche molto divertente. Perché associo la notizia della morte di Borsellino a Lourdes? Perché ho il vago ricordo dello sbarco a Porto Torres, al rientro dal pellegrinaggio, e di qualcuno che ci riferiva la notizia: hanno ammazzato Borsellino. Ma forse mi confondo. La notizia che mi era stata data sulla banchina era il mio voto di maturità: 57/60.

Oggi hanno fatto rivedere in tv (lo fanno sempre) la dichiarazione a caldo di Antonino Caponnetto: "È finito tutto...non mi faccia dire altro". Di nuovo: la morte della speranza. Ma a diciotto anni la speranza non può morire, e, appunto, se si piange si piange di rabbia, non di disperazione. Mi iscrissi a giurisprudenza, come metà della mia classe. Qualche anno più tardi, ho scoperto di essere così rientrato in un fenomeno studiato dai sociologi: le iscrizioni a giurisprudenza nel 1992-93 subirono un'impennata notevole, sull'onda dell'emozione per le stragi di Capaci e di via D'Amelio. Dunque, anche io andai a giurisprudenza, con la convinzione di diventare un magistrato, di combattere per la legalità. Per seguire il mio compagno di banco del liceo, nonché migliore amico, mi iscrissi a Firenze. Per questo, ebbi modo di incontrare Antonino Caponnetto. Venne in via Laura, dove c'era allora la sede della facoltà, nell'aula 6, quella grande dove si svolgevano le lezioni del primo anno. Già per il secondo anno bastavano aule più piccole: la scrematura degli iscritti a legge era molto precoce. Venne a parlare agli studenti, e per prima cosa ci chiese scusa per quelle parole disperate: "È finito tutto". No, non era finito tutto. Lo disse a noi che dovevamo raccogliere il testimone. Lo diceva a se stesso e, per convincersi, faceva il giro delle scuole e delle università, per rimangiarsi l'amarezza e distribuire la speranza, quella che fece dire a Falcone che la mafia è un fenomeno umano e come tale destinato a finire. Dopo quell'incontro, andai in libreria e comprai "I miei giorni a Palermo", in cui Caponnetto racconta di come alla soglia della pensione, decise di andare a sostituire un altro morto ammazzato: Rocco Chinnici. Di Caponnetto ricordo la voce fioca, come quella di Mario Luzi, e la stessa incisività, seppure declinata nella chiarezza, non nell'ermetismo. Ricordo anche il funerale, di Antonino Caponnetto. La chiesa in piazza Santissima Annunziata era piena. Io stavo in piedi, in fondo. Riconobbi le autorità. Mi colpì la presenza di Marco Travaglio e di Daniele Luttazzi. Fra i concelebranti c'era anche Don Andrea Bigalli, all'epoca nostro assistente spirituale alla Fuci. Sono sicuro che a un certo punto mi vide dall'altare. Probabilmente si chiese "Che cavolo ci fa?". Ma non potevo mancare.
Ogni volta che guardo l'intervista a Caponnetto, che risento le sue parole "È tutto finito", ripenso a tutte queste cose. Mi rivedo studentello di giurisprudenza, con tutti gli ideali al loro posto. E mi commuovo. Non so se per lui, per Borsellino, per Falcone...o per me.

Oggi pomeriggio ho rivisto anche l'intervista di Enzo Biagi a Luciano Liggio. Anche in questo caso, la tv non manca mai di mostrare la foto del Boss che aveva per autista nientemeno che Totò Riina, quella in cui sorride con il sigaro in bocca. Un ghigno malefico che ricorda quello di Jack Nicholson. Solo che Liggio non recitava... o forse sì. Nell'intervista a Biagi, sicuramente. Si spacciava per una brava persona, calunniata da "pederasti e uomini licenziati dalla moglie". Al punto che Biagi gli chiese se riteneva di aver mai fatto qualcosa di male e lui concesse che non era un santo, e che, se qualcuno gli "pistava" un piede, lui glielo ri-pistava. Sì, Liggio recitava. Anche lui ebbi modo di vederlo da vicino. Al carcere di Badu e Carros. Suonavo la chitarra alla messa di Natale. Lui era tra i "fedeli". Ci avevano detto di non guardare mai i detenuti e di tenere la testa bassa. Alle ragazze raccomandavano di portare i pantaloni e mai e poi mai la minigonna. Io, tra un accordo di chitarra e l'altro, sbirciavo. Liggio era diverso da quello dell'intervista a Biagi. Aveva un barbone bianco. Sembrava Babbo Natale. Non faceva paura. Lui no. Aveva però affianco due "bravi". Uno dei due incorociò il mio sguardo: non ho mai visto due occhi così feroci. Giuro. Trasmetteva odio. Ricordo altre due cose. Nessuno, fra i detenuti, seguiva i tempi di alzata e seduta della messa. Nessuno si alzava o si sedeva prima che si alzasse o si sedesse Liggio. Se Liggio stava seduto, ad alzarsi erano solo le guardie carcerarie e le volontarie. Tutti gli altri seduti. L'altra cosa che ricordo è che, alla fine della messa, alcuni detenuti si avvicinarono. Notai uno, sicuramente sardo, che aveva un rolex d'oro. Ancora mi chiedo come fosse possibile. Ma non è questo il ricordo a cui mi riferivo: ero accanto a mio padre (che era uno dei responsabili dell'associazione di volontariato con cui eravamo entrati in carcere per animare la messa, e che aveva parlato al microfono per presentare la nostra associazione), quando un agente gli si avvicino e gli disse "Signor Moretti, il signor Liggio le vorrebbe parlare". Vidi mio padre staccarsi dal gruppo e farsi accompagnare da Liggio, che era rimasto in disparte. Gli chiesi poi che cosa Liggio avesse detto. "Nulla", mi rispose, "dice che dobbiamo aiutarlo, che li trattano come cani, che lui dipinge..."

domenica 12 luglio 2009

Mistero

Come tutte le mattine, leggo per primo il Corriere online (http://www.corriere.it/) e trovo questa apertura:

Al che mi domando: "Perché tutte le volte che Berlusconi è in grave difficoltà, spunta un ex comunista e lo salva?". In principio fu D'Alema con la bicamerale. Poi, quando anche Fini cominciava a parlare con toni minacciosi di conflitto d'interesse, fu Veltroni a resuscitarlo, affossando Prodi. Ora che il Premier subisce i colpi della stampa estera e perfino del Vaticano, ai quali non può resistere, ecco che interviene Napolitano a proteggerlo.

Perchè?!!!! Mistero. Se ne dovrebbe occupare Voyager. Che gli ex comunisti siano degli extraterrestri decisi a ditruggere il pianeta cominciando dall'Italia? Giacobbo aiutaci a capire!

sabato 11 luglio 2009

Vignetta di Staino (l'Unità 11/7/09)

Pubblico questa vignetta di Staino, apparsa su l'Unità di oggi (www.unita.it), perché ancora non mi rassegno all'esito del voto in Sardegna. Devo però aggiungere che, riguardo al G8, mi sento più in linea con l'editoriale di Angelo Paniebianco sul Corriere (http://www.corriere.it/editoriali/09_luglio_11/editoriale_successo_panebianco_94c4371e-6de0-11de-b947-00144f02aabc.shtml). Mi spiego. Io credo che dal punto di vista organizzativo, il G8 sia stato un successo, nel senso che tutto è andato bene. E, obiettivamente, non era facile. Detto questo, resta da vedere se questa attenzione mediatica su L'Aquila si tradurrà in un'azione concreta di ricostruzione. Se alle promesse seguiranno i fatti. Comunque, perché non dare atto che la "lucida follia" è stata questa volta ben spesa? Io credo che lo si possa fare, continuando lo stesso a pretendere che anche la Sardegna venga tenuta in considerazione e in qualche modo "risarcita" dei mancati introiti economici del G8. Per risarcimento intendo una politica del lavoro seria nell'isola.
Infine, credo che si possa dare atto che il G8 è riuscito, anche se in concreto si è trattato di un vertice interlocutorio in vista di quello più importante di Philadelphia, che si terrà in autunno, fermo restando che chi l'ha guidato, ha dimostrato sì di essere capace di organizzare una grande kermesse, ma questo non vuol dire essere adeguati a guidare un Paese. Né che la follia sia sempre lucida, tutt'altro.

giovedì 9 luglio 2009

Bravi, poleddos


Sull'Unità di oggi ho trovato questa notizia che altri giornali non hanno dato. Una volta di più mi congratulo con i miei conterranei per il voto espresso nelle ultime elezioni regionali. Un tempo i sardi non si facevano fregare...

mercoledì 8 luglio 2009

lunedì 6 luglio 2009

Erri De Luca a L'Aquila

Su rainews24.rai.it ho trovato due video di Erri De Luca a L'Aquila. Ogni volta che sento De Luca parlare, provo la stessa sensazione di ammirazione. Ammirazione per la capacità che ha di usare le parole. Direi che è un poeta della parola per la capacità che ha di trovare le parole esatte. Questa esattezza, di cui ha parlato Italo Calvino nelle Lezioni americane, è quella che suscita l'ammirazione, perché veicola il simbolo potente della perfezione. Come il cerchio perfetto di Giotto.
De Luca parla di Don Chisciotte come simbolo della forza di chi cade ma si rialza sempre. Lo fa davanti ad un uditorio di terremotati. Dà la più bella definizione che ho sentito dell'indifferenza, come incapacità di distinguere la differenza tra realtà e finzione. Parla infine degli immigrati...
Ogni sua parola è un regalo prezioso per me. Mi fa venire voglia di leggere, di pensare. Mi fa sentire meglio e mi sprona a migliorare. Mi fa amare la letteratura e quindi la vita. Quanto saremmo migliori se trovassimo più tempo per leggere, per riflettere, per imparare da ciò che leggiamo!

http://www.rainews24.rai.it/it/canale-tv.php?id=14447