sabato 28 giugno 2008

Interpretazione autentica

Mi è stato detto, a commento del racconto pubblicato, che ho una prosa aulica e se scrivo sempre così. Questo mi dà l'occasione per ribadire che espressioni come "se n'è gita" o altre non sono, ovviamente, espressioni mie, ma di Leopardi. Inserirle nel discorso del personaggio principale, senza marche di enunciazione, come il corsivo o le virgolette, è una precisa scelta stilistica. Il protagonista del racconto, infatti, vive un dolore profondo al quale si associa una perdita di identità. La sua riflessione sulla vita e sulla morte è anche la riflessione per eccellenza sulle domande ultime che l'uomo si pone dalla notte dei tempi. O, meglio: è un argomento che travalica il tempo e lo spazio. Perciò anche il linguaggio ho voluto che fosse un fluire di parole attraverso il tempo, come l'acqua dell'Arno che scorre, ora come allora, sempre uguale e sempre diversa (per dirla con Guccini). Per questo ci sono inserimenti di Dante, Ungaretti e, appunto, Leopardi. Per quanto concerne quest'ultimo, L'Ultimo canto di Saffo, Le Ricordanze, il Frammento XXXVII, Per una donna inferma di malattia lunga e mortale, Nella morte di una donna fatta trucidare... sono i principali riferimenti. In particolare le ultime tre poesie mi sono care perché non rientrano nei Canti eppure meritano di essere recuperate. L'ultima, soprattutto, tratta il tema dell'aborto in un periodo in cui era decisamente tabù. Il che ci dice, ancora una volta, il coraggio che Leopardi aveva nell'affrontare tutti i temi, anche quelli più scomodi, senza reticenze, ipocrisie e falsi pudori. Leopardi mostra in questa poesia una sensibilità a tratti commovente, che compensa, a mio avviso, le cadute di tono di un linguaggio spesso troppo crudo, che gli procurò prima la censura paterna e poi il suo stesso disconoscimento. Ci sono però dei versi che vale la pena rileggere:
[...]
Per consolarti io canto o donna mia,
Canto perch'io so bene
Che non ha chi m'ascolta un cor di pietra,
Nè guarda il fallo tuo ma le tue pene.

Or dunque ti consola
O sfortunata: ei non ti manca il pianto,
Nè mancherà mentre pietade è viva.
[...]

Queste cose Leopardi le ha scritte nel 1819. Sono moderne e misericordiose.





A proposito di misericordia. Mi sembra di ricordare che fosse padre Turoldo a farne l'etimologia, definendola "amore che trabocca" e attribuendola ovviamente a Cristo. Questo mi ha fatto riflettere su alcune cose che ho letto su Repubblica nei giorni scorsi...


«Solo coloro che sono puri e senza peccato possono ricevere l'Eucarestia»
. All'indomani delle parole di Berlusconi sulla comunione ai divorziati, il Papa ha ribadito ieri la posizione della Chiesa. Spiegando però che gli altri troveranno «nel desiderio di comunione e nella partecipazione all'Eucarestia una forza e un'efficacia salvatrice».
[da Rep. del 23 giugno]

Non sono divorziato ma non credo di essere puro e senza peccato, perciò dovrei accontentarmi del desiderio e di sperimentare la forza salvatrice? Ahimé! (Certo, c'è il sacramento della confessione, ma avrei un certo imbarazzo a definirmi puro e senza peccato anche se mi fossi confessato ora...)
Forse sono in peccato mortale ma continuo a fare la comunione ogni volta che in coscienza sento di poterlo fare; anzi, quando "mi sento chiamato a farla". E ogni volta pronuncio con convinzione le parole "non son degno di partecipare alla tua mensa", sperando nella misericordia concessa all'adultera...

Giovanni, capitolo 8:
Gesù si avviò allora verso il monte degli Ulivi. Ma all’alba si recò di nuovo nel tempio e tutto il popolo andava da lui ed egli, sedutosi, li ammaestrava. Allora gli scribi e i farisei gli conducono una donna sorpresa in adulterio e, postala nel mezzo, gli dicono "Maestro, questa donna è stata sorpresa in flagrante adulterio. Ora Mosè, nella Legge, ci ha comandato di lapidare donne come questa. Tu che ne dici? ". Questo dicevano per metterlo alla prova e per avere di che accusarlo. Ma Gesù, chinatosi, si mise a scrivere col dito per terra. E siccome insistevano nell’interrogarlo, alzò il capo e disse loro "Chi di voi è senza peccato, scagli per primo la pietra contro di lei". E chinatosi di nuovo, scriveva per terra. Ma quelli, udito ciò, se ne andarono uno per uno, cominciando dai più anziani fino agli ultimi. Rimase solo Gesù con la donna là in mezzo. Alzatosi allora Gesù le disse "Donna, dove sono? Nessuno ti ha condannata?". Ed essa rispose "Nessuno, Signore". E Gesù le disse "Neanch’io ti condanno; và e d’ora in poi non peccare più".

Altra notizia, sempre dalla Repubblica:
Padova. Vade retro stampa. L'arcivescovo di Padova, Antonio Mattiazzo, ha cacciato platealmente dalla chiesa il giornalista autore dello scoop sulla vicenda di don Sante Sguotti, l'ex "parroco innamorato", padre di un bambino, ora ridotto dal Papa allo stato laicale. È accaduto nella mattinata di ieri nella cappella di San Bartolomeo, a Monterosso sui Colli euganei, dove Sguotti era parroco fino ad un anno fa. Il vescovo, entrando in chiesa, ha chiesto ad alta voce se tra i presenti vi fosse Gianni Biasetto, corrispondente del Mattino di Padova, e dopo averlo individuato lo ha preso sottobraccio portandolo fuori e intimandogli: «Tu non puoi stare qui, qui comando io e adesso esci». Una scena, conclusa dall'indice alzato del prelato che ha ammonito il cronista a non rientrare, svoltasi nell'imbarazzato silenzio dei fedeli. «Mi sono sentito offeso e umiliato - è il commento di Biasetto - evidentemente il vescovo considera anche me un emissario del "principe delle tenebre", epiteto che aveva usato in una lettera a don Sante. Io sono un cattolico praticante e quanto è successo mi imbarazza molto, perché sono stato additato come indegno di stare in chiesa davanti a tutta la comunità. La mia sola colpa, ammesso e non concesso che lo sia, è di aver fatto il mio lavoro e di aver scritto semplicemente la verità».

Forse è un po' forte ma mi viene in mente Matteo, capitolo 15:

Ipocriti! Bene ha profetato di voi Isaia, dicendo
Questo popolo mi onora con le labbra
ma il suo cuore è lontano da me.
Invano essi mi rendono culto,
insegnando dottrine che sono precetti di uomini".



mercoledì 25 giugno 2008

L'Arno, Anna, i sogni, la Luna

Pubblico il racconto che è stato segnalato al concorso "Arno fiume di pensiero" 2008. In tanti me l'avete richiesto. Grazie per la fiducia preventiva! Come dicevo al mio amico Patrick non è di facile lettura. L'ho concepito più come un saggio travestito da racconto che come un racconto vero e proprio. L'operazione è riuscita nella misura in cui il lettore viene invogliato a rileggere e meditare Leopardi, poeta di pensiero, potremmo dire... Ma va bene anche se lo si considera una riflessione sulla vita e sull'amore (e sul doppio?). Insomma, vedete voi. Fatemi sapere!

L'ARNO, ANNA, I SOGNI, LA LUNA

La sera, cala dalle oreficerie un mantello d'oro che si posa e veste di luce l'Arno, proprio sotto Ponte Vecchio; o, forse, è una polvere di stelle che Dio manda al morir del Sole, perché la notte non nasconda lo spettacolo dell'arte agli innamorati. Anna ed io venivamo qui, sul ponte Santa Trinita, per vedere rinnovarsi lo spettacolo della nostra unione, chiusa nel cerchio perfetto delle fedi nuziali, che parevano attingere dall'acqua un poco di quell'oro, per risplendere più vive nelle nostre giornate di gioia del pane quotidiano. Ma ora che Anna non c’è più, ora che il dolce lume non fiere li occhi suoi, questo stesso spettacolo, un tempo dilettoso e caro, appare, ai miei affetti disperati, molle, come per Saffo la notte placida e il raggio verecondo della Luna cadente, nel suo ultimo dispregiato canto.
Era lei, Anna, a parlarmi di poesia e letteratura. Per me era un mondo sconosciuto e lontano. Quale fosse, il mio mondo, non lo ricordo. Anzi, non lo so più, da quando Anna, dolcezza mia!, se n’è gita, portandosi via il mio nome.
A scuola l’adoravano tutti: i colleghi, i genitori, gli alunni. Sono i miei bambini, diceva. Ed io, mi vergogno ma devo ammetterlo, un po’ ne soffrivo, perché ero geloso… Perché non avevamo mai avuto figli nostri. Abbiamo provato, ma niente. Ora si va dai dottori e trovano loro il modo, ma a quei tempi non stava bene. Se questa è la volontà di Dio… Così dicevamo. Ma perché Dio non ha voluto dare un figlio ad Anna? Non dico a me, ma a lei! Oppure, è proprio a me che non l’ha voluto dare? A lei ha pur dato i “suoi bambini”!

Mi chiamo Melisso. Così ci ho risposto. Fornisca le sue generalità, mi dice. Ho fatto finta che non capivo, ma io lo so cosa sono le generalità. Non ci ho nulla, gli rispondo. Questa è la mia casa. E ci indico il cartone, le buste e la bottiglia vuota del vino. Se ce n’era ancora te ne offrivo, ci ho detto, e ci ho sorriso. Ma lui mi ha fatto gli occhi cattivi. Nome e cognome, mi dice quell’altro. Io ci sorrido anche a lui. Lo sai il tuo nome? No che non lo so, ci volevo rispondere, ma poi come celo spiegavo? Così ci ho detto il primo nome che mi è venuto in mente, Melisso. Melisso? E che nome sarebbe? E il cognome? Ungaretti, ci ho risposto. Quello cattivo mi ha spinto che manca poco che cado. C’era il muro che mi ha retto, se no cadevo. L’altro parlava con una specie di radio trasmittente. Quando finisce, ci ha detto al cattivo: Dai andiamo, ci chiamano. Lascialo, non vedi che è di fuori? Il cattivo mi ha tenuto gli occhi addosso ancora per un po’ e mi ha detto: Qui non puoi stare, capito? Se quando torno ti ritrovo, ti porto in centrale. E lavati, che puzzi di piscio!

Camminavo, l’altra (o forse dovrei scrivere l’atra?) notte, lungo l’Arno. S’ella è morta, io come son vivo?, mi chiedevo, e non riuscivo a persuadermi. In alto, sopra la chiesa del Carmine, c’era un’unghia sottile di Luna. Proprio mentre la guardavo, un aereo la sfiorava, quasi volesse tagliarla. L’inganno dei sensi! Le illusioni: il più solido piacere di questa vita! L’immaginazione! Quel fingersi nel pensiero interminati spazi e sovrumani silenzi! Anna… era lei a spiegarmi che il piacere, la felicità, sono come la Luna: l’uomo vorrebbe toccarla, tanto gli sembra vicina, ma è così lontana che non la toccherà mai. E invece l’ha toccata! Nel Sessantanove. Me lo ricordo ancora: Anna ed io sulla nostra casa in via del Fosso, davanti alla tv, e Tito Stagno in bianco e nero che diceva: Ripeto, l’uomo è sbarcato sulla Luna! Hanno spento i motori! E applaudiva anche lui per l’emozione. Ma Anna no. Era scura in volto: emozionata, eppure triste. Cos’hai?, le chiedevo. E lei, con gli occhi umidi, rispondeva: Anche l’ultima illusione è caduta! Ma che dici?! Non sei contenta? Non mi sentiva. Fissava la tv e all’improvviso declamava, come parlando tra sé: Or poserai per sempre, / Stanco mio cor. Perì l’inganno estremo, / Ch’eterno io mi credei. Perì. Ben sento, / In noi di cari inganni, / Non che la speme, il desiderio è spento. Io, invece, ero elettrizzato dalla portata storica dell’evento, dalla magnificenza del progresso e dagli scenari futuri che si aprivano da quel momento alle sorti del genere umano. Proprio non capivo il suo stato d’animo. Ero lontano anni luce: nella galassia dei dubbi famelici sul nostro matrimonio. Un grillo parlante a testa in giù mi diceva che Anna era diversa da me: troppo triste, depressa…Io desideravo essere felice!

Non me lo sono inventato, il nome. Me l’ha dato uno che conoscevo. Non ricordo come si chiamava, ma tutti lo chiamavano Ungaretti, perché stava sempre a raccontare storie, a dire poesie. Dice che questo Ungaretti qui era un poeta. Un poeta vero. Qualche volta lo chiamavo anche Ungaro, così per abbreviare, perché mi veniva meglio. Qualcuno pensava che fosse ungherese, perciò lo chiamavano anche l’ungherese. In stazione lo conoscevano tutti. Veniva lì, non sempre, ma spesso, e ci portava sempre qualcosa a tutti: un cartone di vino, un maglione di lana, una coperta. Stava un po’, beveva anche lui con noi. C’era sempre il romano che ci chiedeva: A Ungaro dicce na poesia! E lui ne sapeva sempre una diversa. Ma io non l’ho conosciuto alla stazione. No. Io l’ho conosciuto prima, d’estate, al fiume. Lì alla cascata, così la chiamo io: dopo Ponte Vecchio, e pure dopo quell’altro ponte che c’ha le statue. Tra gli altri due ponti, quello e quell’altro dopo. Lì dove c’è quello spazio di cemento. Prima mi dormivo lì. D’estate, perché fa più fresco. D’inverno no, non ci si può stare. Si può anche morire di freddo, si può. Come quello lì di Roma, che è morto l’inverno scorso. Ma quello non stava qui, stava un po’ alla stazione e un po’ al Mugnone. Di là è pure peggio, che rischi che ti portano via tutto mentre che sei dormito o ti prendono a calci. Al Mugnone no, non si può stare, ma sull’Arno d’estate ci dormo bene. È lì che l’ho conosciuto all’Ungaro. Una notte ero dormito. Poi ho sentito dei rumori e mi sono svegliato. Lui era lì che tirava fuori delle robe da un sacchetto, tipo delle piccole pietre, che le buttava nell’acqua una a una, e parlava da solo. Diceva delle cose. Ei tu? Gli dico. Lui si gira e mi fa un sorriso. Mi indica col dito qualcosa e vedo che accanto a me c’era una bottiglia di vino. La prendo e bevo un goccetto, che d’era tutto il giorno che d’ero a secco. Grazie amico! Vieni a bere con me! Ci dico.

Aveva una collezione di conchiglie, Anna. Le prendeva quando andavamo a trovare i suoi zii, in Calabria. Il ricordo che ho non è delle estati, ma dei giorni di Pasqua, in primavera. L’immagine di lei, scalza ma con i pantaloni lunghi, che si china a raccogliere le conchiglie, è così viva da farmi male. Le metteva tutte in un sacchetto e poi, tornati a Firenze, le conservava in una grande bottiglia di vetro azzurro, che tenevamo in camera da letto, sulla credenza, vicino alla lampada d’alabastro, proprio sotto il suo quadro preferito: la riproduzione dell’Annunciazione del Beato Angelico.
Il giorno che ha deciso di andare da sola incontro alla nebbia, portandosi via le mie parole, io ho rotto la bottiglia e ho contato le conchiglie una ad una; e per ognuna ho versato una lacrima: Se torna maggio, eterno Sospiro mio, non torna per te! Poi, quando ho finito le lacrime, ho raccolto le conchiglie, e le ho divise in gruppi di cinquantaquattro. Ogni sera, prendevo un gruppo e lo mettevo dentro il sacchetto di velluto rosso, che lei portava sempre con sé. Andavo giù, sull’argine dell’Arno, tra ponte alla Carraia e ponte Amerigo Vespucci, dove c’è il dislivello, a recitare il mio rosario di conchiglie. C’era sempre un uomo, lì vicino al muro, che dormiva sotto un pezzo di cartone. L’ultima notte ho fatto amicizia con lui.


Abbiamo bevuto e lui mi ha subito chiamato Melisso. Mi ha detto: Odi, Melisso! E si è messo a raccontarmi una storia. Lui si credeva che ci credevo, ma lo sapevo benissimo che d’era una storia. Non ero così ubriaco che non capivo che d’era una specie di favola per i bambini. Dice che aveva fatto un sogno che la Luna era caduta lì, e indicava più in là di dove eravamo noi, dove che c’era l’erba. E dice che quando è caduta sull’erba bagnata sembrava che faceva le scintille, come se metti un pezzo di carbone acceso nell’accua. E poi si è spenta e in celo ci è rimasto come un buco nero. Allora ci ho detto che non era possibile questa cosa qui. Non ero mica scemo. E lui mi fa: Perché non ci sono le stelle cadenti? Ed io, che sono più furbo di lui, ci dico: Sì, ma le stelle sono tante. Se ne manca una, manco ce ne accorgiamo che ci sono le altre. Ma se cadeva la Luna, che d’è una sola, lo vedevamo tutti!

Mi piaceva la depravazione, mi piaceva la depravazione più ignobile. E mi piaceva la crudeltà: non sono forse una cimice, un insetto malefico? Un Karamazov, è detto tutto! No, non ero un Karamazov, ma l’ho tradita. Lei, dell’arida vita unico fiore, l’ho tradita con una più giovane, cercando la felicità nel più triste dei luoghi comuni. Una storia finita subito, bruciata al sole di un’estate. Anna non l’ha mai saputo. Eppure, da allora non è stata più felice.

Poi, dopo la notte della Luna, non è venuto più. L’ho rivisto alla stazione, l’inverno dopo. Lì lo conoscono tutti all’Ungaro. E poi l’ho rivisto di nuovo d’estate. Che di lì eravamo sempre da soli. Una notte ci aveva portato una bottiglia di rosso, che alzava il bicchiere e mi indicava l’Arno e mi diceva: Questo è il Serchio! E io ci dicevo: Ma che secchio e secchio, questo è l’Arno! E lui: Questo è il Nilo! E io credevo che d’era già ubriaco, che lo sapeva anche lui che quello era l’Arno!... Questa è la Senna!... Poi me l’ha detto che d’era una poesia di quell’Ungaretti. Allora ci siamo fatti una risata tutti e due, e abbiamo bevuto ancora. Io ci ho detto che anche a me ci piaceva di leggere e di scrivere, che quando che d’ero a squola me l’avevano imparato ma poi mio padre non mi mandava più che dovevo di lavorare. Allora l’Ungaro mi ha detto: Domani ti porto un regalo. E infatti domani mi porta questa busta, che dentro c’erano un sacco di quaderni con la copertina nera. Questi sono i miei quaderni, mi dice. Te li regalo. Ci sono anche le penne. E mi da tutte queste penne nere che d’erano tenute da un elastico. Puoi leggere quello che ho scritto in questultimo anno, se ti interessa. E puoi anche scrivere, nei quaderni vuoti. Allora io ci ho detto che non sapevo più come si mettevano le virgole e i punti, e lui si è messo a ridere e mi dice di guardare come li aveva messi lui oppure di metterli a caso. Di copiare, mi ha detto. E io ho copiato, ma un po’ sapevo scrivere di già, che ha squola ce l’aveva imparato la maestra. Che se sbagliavo la e con l’accento o la a con l’acca mi dava le bacchettate sulla mano. Ero contento che me li aveva regalati i quaderni. Dice che a lui non li voleva più e allora che a me li dava con piacere. E allora per festeggiare abbiamo bevuto, ma tanto, che l’Ungaro aveva portato due bottiglioni grandi. Poi bò, devo essermi dormito che quello che ho visto non so se l’ho visto o se d’era un sogno. Ma da quella notte all’Ungaro non l’ho visto più. Lo giuro, ce l’ho detto anche a quello poliziotto cattivo.

Arno nero.
Nutrie oscure,
terrore dei ratti.
Sangue nero.

L’ho tradita nel momento in cui era più debole. Da poco aveva saputo di essere rimasta nuovamente incinta. Fingevo di essere contento, ma anche preoccupato per lei. Non era più una ragazzina e sarebbe stata di certo un’altra gravidanza a rischio. Perciò, la lasciavo libera di scegliere, ma le suggerivo, per il suo bene, per la sua salute, di considerare questa volta la possibilità di farsi aiutare da un medico per un… intervento terapeutico. Intanto, dentro di me, custodivo il segreto del mio adulterio e meditavo sul momento più opportuno, dopo l’operazione, per lasciarla. Non ero pronto per un figlio. Non era proprio il momento. Ero ancora giovane, o almeno così mi sentivo. Era giusto che avessi accanto una donna più allegra di Anna, più contenta della vita. Pensavo così. Poi non c’era stato bisogno dell’aiuto di nessuno: Anna, ancora una volta, aveva abortito spontaneamente dopo due settimane. Neanche allora, scellerato amante, mi sovvenne de’ l’antico amore! Se questa era la volontà di Dio…

Ero ubriaco, ti ho detto. Dormivo. Però poi ho aperto gli occhi e ho visto questo qui di spalle, tutto nudo. L’ho visto bene, che c’era la Luna tonda. All’inizio non pensavo che d’era l’Ungaro. Pensavo che d’era uno così. Un matto. Ci volevo gridare: Ei cheffai? Sei matto di entrare nell’accua così tutto nudo? Ma questo qui era andato lontano, nella striscia di cemento che arriva dall’altra parte del fiume. A metà di ferma. Sta lì fermo a guardare nell’accua come che ha perso qualcosa. Forse si guardava la faccia, perché sicuro come la morte che non poteva vedere il fondo, Luna o non Luna. A un certo punto si toglie un anello dal dito, alza il braccio in alto e butta l’anello. Poi lo fa di nuovo: toglie un altro anello dallo stesso dito, lo solleva in aria e lo lascia cadere nell’accua. Poi è rimasto fermo un po’ e poi ha fatto un passo ed è caduto giù.

Dopo che Anna ha voluto dormire di più, lasciandomi nella sua parte ancora calda del letto il ricordo acerbo di lei, non ho più chiuso occhio. Così, oggi ho svuotato il tubetto, che era ancora lì, sul suo comodino. Mi sono addormentato e ho fatto un sogno. Camminavo in una notte di plenilunio, da solo, lungo il dislivello dell’Arno, tra ponte Vespucci e ponte alla Carraia. L’acqua, gelida e furiosa, mi mordeva le caviglie. Ero nudo, e pensoso di cessare dentro quell’acque la speme e il dolor mio. Avevo sete. Una sete terribile. Arrivato al centro del fiume, mi fermavo e guardavo giù: perché la corrente non mi trascinava via? Nell’acqua, straordinariamente, non c’era riflessa la mia immagine, ma una scalinata: quindici, poi altri quindici scalini, sotto un’elegante guida rossa. Poi, una svolta a destra, altri dodici scalini e… C’era un frate. Dipingeva.
Seduto sull’ultimo scalino, lo guardavo dal basso in alto aggiungere ancora un poco d’oro e poi scrivere una frase in latino: VIRGINIS INTACTE CUM VENERIS ANTE FIGURAM PRETEREUNDO CAVE NE SILEATUR AVE… La sete mi divorava, le labbra mi s’incollavano. Avrei dovuto chiedere dell’acqua, ma ero troppo curioso di sapere chi fosse quel frate e cosa stesse scrivendo. Il suo nome era Guido, ma potevo chiamarlo Giovanni. Scriveva un ammonimento per ogni visitatore che, trovandosi lì a passare, non dimenticasse di salutare la Madonna, come si conveniva alla madre di Dio, dalle cui mani amorevoli San Domenico aveva ricevuto in dono l’abito religioso. Quella polverina d’oro la raccoglieva di sera, quando dalle botteghe degli orafi di Ponte Vecchio cadeva nelle acque dell’Arno. Sembrava ben disposto a parlare e allora io, con deferenza, gli rivolgevo la domanda che mi sentivo bruciare nel petto, pensando ad Anna e a quell’altra, di cui non ricordavo più il nome: Frate Giovanni, ditemi, vi prego, che cos’è veramente l’amore? Senza voltarsi, il frate rispondeva sibillino. Ricordo solo frammenti di parole, piccole gocce d’acqua viva cadere sulla mia fronte, come in un Battesimo. Un Battesimo di frammenti, di ossimori: Considera questa donna…Eccomi sono la serva…sceglie liberamente di servire…la rinuncia come dono…l’io che muore e risorge nel noi…la libertà nel sacrificio…accettare la responsabilità…
Queste parole mi turbavano: Che cosa questa donna, sacrificando, o donando se stessa, ha liberamente e responsabilmente accettato? A questa domanda, il frate si voltava, mi guardava dritto negl’occhi e mi rispondeva: Di mettere al mondo un bambino.

lunedì 23 giugno 2008

Arno, fiume di pensiero (ultimo atto)

Il mistero è presto risolto. Bastava leggere attentamente. Sulla copertina c'è scritto "edizione 2005". Dunque i fascicoli sparpagliati sul tavolo sono quelli pubblicati nelle edizioni precedenti. Infatti vedo che alcuni risalgono al 2003, altri al 2007, ecc. Per fare la prova del nove mi rivolgo con aria indifferente alla ragazza che mi sembra faccia parte dell'organizzazione: "L'edizione di quest'anno?" "Viene distribuita durante la premiazione", è la sua risposta. Bene, non tutto è perduto.

Dunque, rimango. Sono da poco passate le cinque, ma la gente sta ancora arrivando alla spicciolata. Forse c'è il tempo per qualche fotografia in giardino. La Principessa Fiona viene con me. Sono più rilassato, ma non ancora del tutto. Perciò è bene che l'orchessa mi stia vicino, per difendermi da eventuali minacce... Shrek invece non si vede più. Forse è rimasto in macchina o addirittura ce lo siamo persi a Lastra a Signa. Mah...non c'è da preoccuparsi, comunque. Se la sa cavare da solo.


Il giardino, dicevo...


Le cinque e mezza. Basta così. Se no, il rischio è che me la passo a fare fotografie a tutto spiano e mi perdo la premiazione! Perciò è meglio rientrare. Sulla porta Caruso omaggia le Muse che gli sono propizie:



La sala adesso è piena di persone (De Gregori: la strada adesso è piena di persone). Stento a trovare posto. Prima era tutto libero, mannaggia alla musica! (lo so, non c'entra niente, ma forse la mia Musa è De Gregori!). Mi siedo. Ho di fianco una coppia attempata. Marito e moglie, immagino. Mi sento improvvisamente solo. Mi giro. Per fortuna la Principessa orchessa è dietro, seduta due file più in là. Mi guarda le spalle. Di fronte a me, invece, il tavolo della giuria, con al centro il Presidente, che si è appena accomodato e sta provando il microfono. Mentre lui si diverte a far fischiare tutto, strombandoci le orecchie, io mi soffermo a guardare ciò che sta alle sue spalle: un grande caminetto (che un tempo dev'essere stato acceso, visto che ha la bocca nera di fuliggine) e, di quinta, due gigantografie del grande tenore. In quella di sinistra con abito bianco e in quella di destra con abito nero. Perfetta simmetria. Penso al tema del doppio in Kubrik, in particolare mi viene in mente Eyes wide shut.



È tutto pronto. Il Presidente ha fatto i ringraziamenti di rito, l'assessore alla cultura ha parlato...(mentre io guardavo le foto appese alle pareti della Villa dopo i bombardamenti della seconda guerra mondiale)...

Ora non resta che chiamare uno ad uno i premiati, a partire dai "segnalati", e consegnare a ciascuno le tre copie omaggio della pubblicazione. Si tratta di alzarsi quando ci si sente chiamare, avvicinarsi al tavolo della giuria, stringere le mani, fare un sorriso per la foto e per la telecamera di Toscana Tv. Già mi prende male. Fortuna che non ho vinto: i primi tre classificati dovranno anche dire due parole al microfono! Capisco solo ora che la mia carriera di scrittore è già finita. Il dibattito... cioè, il discorso al microfono no! Comunque...solito ordine alfabetico...alla M questa volta dovrei esserci io...infatti: "Moretti Marcello, che non può essere con noi..." "SI, CI SONO!" Ma guarda che mi è toccato fare! Credevano che non ci fossi! Mannaggia a me e a quella mail che ho mandato! Il Presidente, vinta la sorpresa, dice al microfono che sono arrivato da lontano, da Sassari! Lo lascio dire. Sarebbe troppo lungo spiegare. Sono bravo: sorrido perfino per la foto, senza scappare subito, una volta prese le mie copie omaggio. Per un attimo il flash mi abbaglia e mi sembra di vedere Shrek, ma è solo un'impressione. Torno a sedere e attendo, curioso come gli altri, di scoprire chi sono i vincitori.

A premiazione finita, c'è l'omaggio a D'Annunzio per i settant'anni dalla morte. Sono settanta? Era la morte? O la nascita? No, dev'essere la morte. Già non lo ricordo più. Qualcuno controlli, per favore. Insomma, c'è l'attore che legge alcuni versi del poeta. Piano piano mi lascio prendere dall'atmosfera, luci soffuse e occhio di bue sul lettore, e mi lascio trasportare dalla corrente delle parole...e l'acqua di quel fiume a un certo punto mi travolge e quasi la sento dentro, voler prorompere dai canali lacrimali...

Laudata sii pel tuo viso di perla,

o Sera, e pe' tuoi grandi umidi occhi ove si tace

l'acqua del cielo!

[...]

e su 'l grano che non è biondo ancora

e non è verde,

e su 'l fieno che già patì la falce

e trascolora,

e su gli olivi, su i fratelli olivi

che fan di santità pallidi i clivi

e sorridenti.

Laudata sii per le tue vesti aulenti,

o Sera, [...]

Accidenti a te D'Annunzio! Così detestabile come uomo e così seducente come poeta!

Come se non bastasse, il tutto è condito con il sottofondo del Clair de lune di Debussy... provate voi a leggere D'Annunzio e sentire Debussy contemporaneamente e poi mi dite se non vi siete commossi!



Prima di trasformarmi in albero o fenicottero o rugiada, distolgo l'attenzione. Dopo una ventina di minuti è tutto finito. C'è ancora il tempo per qualche foto e poi si torna a casa.

Ma al parcheggio la macchina non c'è, mi dà un passaggio una dannunziana lodoletta...

V'è creatura alcuna

che in tanta grazia

viva ed in sì perfetta

gioia, se non quella lodoletta

che in aere si spazia?

Così, dall'alto, vedo che la Villa è un grande rombo.

venerdì 20 giugno 2008

Arno, fiume di pensiero (parte terza): vado via o rimango?

Si entra scendendo due o tre scalini. Subito a sinistra un'anticamera, con un grande tavolo e un divano dove qualcuno si è già accomodato per discutere di chissà quale noioso argomento filosofico-letterario. Ma forse sono prevenuto. In realtà l'ambiente non è terribile come me l'aspettavo. Non sento l'odore acre del narcisismo o di uno pseudo intellettualismo. Ci sono persone di tutte le età, giovani e meno giovani. L'eleganza c'è ma non è ostentata o aggressiva. Non avverto l'atmosfera da premio letterario. Potremmo essere tutti lì come turisti della "settimana della cultura" che approfittano dell'apertura straordinaria di una villa solitamente chiusa al pubblico.

La mia attenzione è attratta dalle pile di fascicoli sparpagliate sul tavolo. Ci sono anche depliant e i grandi manifesti verdi della "serata di premiazione". Ne arraffo subito uno prima che finiscano, tanto è gratis. Poi prendo in mano uno dei fascicoli e lo apro per vedere a che pagina è stato pubblicato il mio racconto. Devo ricordarmi di prendere una copia anche per mamma, altrimenti questa volta mi picchia! Scorro l'indice: testi premiati...lì non ci sono, purtroppo: quei soldini mi avrebbero fatto comodo...testi segnalati...Moretti, Moretti, Moret...ma dove sono? Rileggiamo: non è possibile, ci devo essere...Ma, come?! Non ci sono!! Ma allora cosa diavolo ci son venuto a fare? Eppure mi hanno mandato loro la mail, scrivendomi chiaramente che il mio racconto era stato segnalato! Non è che per caso...insomma...forse è per quella mail che gli ho mandato, dicendo che forse non sarei potuto intervenire alla serata della premiazione per motivi di lavoro e come avrei dovuto fare, nel caso, per avere una copia della pubblicazione. Dalla biblioteca del Comune sono stati molto gentili a rispondermi che non dovevo preoccuparmi e che sarebbe stata loro cura inviarmi per posta la suddetta copia...Vuoi vedere che magari hanno pensato che non sarei andato e quindi hanno deciso di ritirare la segnalazione e pubblicare invece qualcun altro? ...si saranno sentiti snobbati, avranno pensato "Questo chi si crede di essere!"...Che idiota! Avrei dovuto scrivergli un paio di giorni fa per confermare la mia presenza! E cosa racconto adesso a tutti quelli a cui ho detto che il mio testo era stato segnalato e che sarebbe stato pubblicato?

E soprattutto: ora che faccio? Vado via o rimango?

giovedì 19 giugno 2008

Arno, fiume di pensiero (parte seconda)

Abbiamo una mappa: tre semafori, poi a sinistra, e dovremmo trovarci di fronte al cancello della villa. Così è, infatti. Dopo la svolta a sinistra, ci si arrampica per una stradina stretta in salita e si arriva fin dentro il parco che circonda la dimora che fu del grande tenore. Ad accoglierci, un uliveto...

Scatto subito qualche foto al panorama...
...e, appunto, agli olivi,

... i fratelli olivi
che fan di santità pallidi i clivi
e sorridenti.

C'è ancora da salire per un pezzetto. Ma non sento la fatica, anzi. Sto proprio bene. Non c'è più il freddo di prima, né il caldo torrido del pomeriggio estivo. Trovo invece il silenzio che permea tutto di sé. E in questo silenzio, con voluttà, mi abbandono e mi perdo... e non so più se e chi sono...

Bonaccia, calura,
per ovunque silenzio.
L'Estate si matura
sul mio capo come un pomo
che promesso mi sia,
che cogliere io debba
con la mia mano,
che suggere io debba
con le mie labbra solo.
Perduta è ogni traccia
dell'uomo. Voce non suona,
se ascolto. Ogni duolo
umano mi abbandona.
Non ho più nome.

La facciata (o è il retro?) della villa è un po' scrostata. Potrebbero ristrutturarla! Tuttavia l'impressione di bellezza è grande. Un muro, un rampicante, uno scrittore vero seduto sulla prima di una teoria di panchine che si distende sul vialetto prospiciente l'ingresso della casa. Lui ancora non sa se il premio che gli è stato annunciato sarà il primo o il secondo o il terzo. In cuor suo si aspetta l'oro, ma si dovrà accontentare dell'argento.

domenica 15 giugno 2008

Arno, fiume di pensiero (parte prima)

Non ho dubbi, questa volta no. Ho deciso che ci sarei andato fin dal giorno che ho visto la foto di Villa Caruso su internet. La curiosità intellettuale vince anche la ritrosia...

Non voglio andarci da solo, tutto qui. Mi sembra legittimo. Ho bisogno di compagnia, nel caso l'ambiente, come temo, non mi si confaccia.

Ho con me solo Shrek. Potrei andarci con lui, perché no? D'accordo, è un orco, ma bisogna per questo discriminarlo? E poi è già da qualche giorno che mi viene appresso e non sembra di buon umore. Perciò diteglielo voi che non può venire! Certo, sarebbe meglio che venisse anche qualcun altro. Ecco, magari la Principessa Fiona (o Fihona? Non ricordo mai come si scrive!). In tre sarebbe meglio. Se poi venisse anche Ciuchino...

Arriva il giorno. Per ora siamo in tre: Shrek, la Principessa Fiona ed io. Manca Ciuchino. All'ultimo momento si è impuntato. Non vuole venire. Si sa, è nella sua natura: quando s'impunta e non si vuol muovere è più facile convincere a spostarsi un muro di cemento armato. Stupido io che ci rimango male tutte le volte. Ora però l'orco Shrek è più ingrugnito di prima. Speriamo non mi faccia fare brutta figura e che la Principessa gli faccia tornare il buon umore!

Siamo in anticipo. Ci fermiamo un attimo a Lastra a Signa. Un caffè per giustificare la pipì, le batterie per la macchina fotografica, e un giretto in centro. Che ci sarà di bello a Lastra a Signa? Beh, intanto una porta...

L'atmosfera è strana. Stamattina minacciava pioggia. Ora c'è il sole... e quella nitidezza del cielo d'estate e quella luce del sole, troppa luce, che abbaglia le strade sonnolenti del sabato pomeriggio. La piazzetta sghemba induce prospettive incongrue. Il sole non riscalda. Ho freddo. Sento un che di claustrofobico, di minaccioso, in questo silenzio metafisico.

Piazza dell'Assenza. Il sole
non fa ombra a picco, non riscalda
manichini taciturni
né un piccione abbaia
l'interno farsi intorno (manca
l'uomo) nell'ordine di specchio:
misteriosa (se è) serenità.

Non ricordo neanche più quando l'ho scritta...

Oltrepassata la porta, la strada declina per un tratto. Poi una casa. Tutto qui ricorda il tenore Caruso. Ogni via, ogni muro una targa che segnala il suo passaggio...Ha mangiato qui!...Qui ha passeggiato!... Ma in quella casa c'è anche un'altra targa commemorativa...

Qui abitò dal 1916 al 1918 Dino Campana...

1918: l'anno che è entrato nel manicomio di Castelpulci, a Scandicci, per non uscirne più. A farlo uscir di matto fu proprio questo nitore oggettivo, questa luce positivistica che definisce i contorni delle piazze, questa violenta verità, questa bellezza senza senso...

... e la bellezza priva di senso della materia che mi sembra metafisica, così disse De Chirico. E anche la musa di Campana fu una Musa inquietante.

Ripenso alla sua vita tragica. Al bisogno di fuggire dall'espresso verso l'inesprimibile; dal caldo che affoca e dal nitore che acceca, al pulviscolo leonardesco che confonde e affascina, e restituisce il mistero verginale alle pallide rocce e un'ambiguità, forse ancora inquietante ma erotica, cioè vitale, non mortifera, al sorriso della Gioconda. Non un'inquietudine ossessiva, ma l'ossessione dell'inquietudine, del mistero religioso, dell'utopia, del canto di Orfeo che libera dagli inferi Euridice, della chimera...











LA CHIMERA

Non so se tra rocce il tuo pallido
viso m'apparve, o sorriso
di lontananze ignote
fosti, la china eburnea
fronte fulgente o giovine
suora de la Gioconda:
o delle primavere
spente, per i tuoi mitici pallori
o Regina o Regina adolescente:
ma per il tuo ignoto poema
di voluttà e di dolore
musica fanciulla esangue,
segnato di linea di sangue
nel cerchio delle labbra sinuose,
Regina della melodia:
ma per il vergine capo
reclino, io poeta notturno
vegliai le stelle vivide nei pelaghi del cielo,
io per il tuo dolce mistero
io per il tuo divenir taciturno.
Non so se la fiamma pallida
fu dei capelli il vivente
segno del tuo pallore,
dolce sul mio dolore,
sorriso di un volto notturno:
guardo le bianche rocce le mute fonti dei venti
e l'immobilità dei firmamenti
e i gonfi rivi che vanno piangenti
e l'ombre del lavoro umano curva là sui poggi algenti
e ancora per teneri cieli lontane chiare ombre correnti
e ancora ti chiamo ti chiamo Chimera.

[da Canti Orfici, 1914]


lunedì 9 giugno 2008

Sogni e dintorni

Stanotte ho sognato che camminavo verso una piazza di Firenze, tipo piazza D'Azeglio però ovale come piazzale Donatello. Discutevo dei sessant'anni della Costituzione, chiedendo un parere al mio interlocutore...Giorgio Napolitano. Non ridete! Almeno quando si sogna perché non sognare in grande? Più che altro, qualcuno dirà, non ti rilassi mai! In effetti...
A proposito di sogni, in questi giorni la Musa proprio non mi vuole lasciare...

Perché una rena di briciole
sul balcone di casa
ha rotto il vetro della clessidra
e mi racconta una storia
(a me così cara), sempre
sempre invocata
come la liturgia della sera?

Perché l'altra notte
ha riposto il suo manto
di lucciole e nebbia
e mi sei apparsa in sogno
come un pugno
e ti ho pianto?

giovedì 5 giugno 2008

FEMMINISTE, DOVE SIETE FINITE?


Riporto una piccola didascalia da Repubblica di ieri:

GAFFE CON LA GIORNALISTA

"Lei è la giornalista più cattiva", ha detto Berlusconi indicando a Sarkozy Mariella Venditti del Tg3. "Ma io sono buona", ha replicato la cronista. "Nel senso di bona!", ha ribattuto Berlusconi.

Dopo questa e quella, ben più grave, gaffe con la giornalista russa, "mitragliata" davanti al mondo e di fianco al Presidente del Paese della Politkovskaja, visto che nessuno batte ciglio, mi domando: "Che fine hanno fatto le femministe?"

lunedì 2 giugno 2008

Buona Pasqua...cioè, TANTI AUGURI PASQUA!!!!

Tanti tanti auguri di buon compleanno a una mamma sempre più giovane, da un figlio sempre più anziano.



Ricordi?

Non sapevo come chiamarti

...se rondine

nelle doglie del parto.


Sapevo, però, dove trovarti:

nel deserto, dove altrimenti?

Eterna negli elementi.


Le bocche di leone

fiorivano sotto la palma.

E tu, fin dall'origine,

vestita di gigli.

Senza titolo...o forse "Offerta"


Riaffiora dal porto del tempo

perduto il dovere di parlare,

ritornare ai girasoli

del mio campo di silenzio.

Fiorirli dal Novecento

annichilito.



Ma orfane di gioia materna,

apatiche nei loro deserti,

le parole scavate

nel sottocosto, nell'outlet,

nell'ennesima offerta speciale,

olocausto dell'invenduto,

non attendono più neanche la notte

nell'eterna quaresima aurorale.



E anche dalla mia barca

bucata si vede il mondo,

meticciare pallido e assorto,

o rivangando il torto

del suo giardino concluso.