domenica 15 giugno 2008

Arno, fiume di pensiero (parte prima)

Non ho dubbi, questa volta no. Ho deciso che ci sarei andato fin dal giorno che ho visto la foto di Villa Caruso su internet. La curiosità intellettuale vince anche la ritrosia...

Non voglio andarci da solo, tutto qui. Mi sembra legittimo. Ho bisogno di compagnia, nel caso l'ambiente, come temo, non mi si confaccia.

Ho con me solo Shrek. Potrei andarci con lui, perché no? D'accordo, è un orco, ma bisogna per questo discriminarlo? E poi è già da qualche giorno che mi viene appresso e non sembra di buon umore. Perciò diteglielo voi che non può venire! Certo, sarebbe meglio che venisse anche qualcun altro. Ecco, magari la Principessa Fiona (o Fihona? Non ricordo mai come si scrive!). In tre sarebbe meglio. Se poi venisse anche Ciuchino...

Arriva il giorno. Per ora siamo in tre: Shrek, la Principessa Fiona ed io. Manca Ciuchino. All'ultimo momento si è impuntato. Non vuole venire. Si sa, è nella sua natura: quando s'impunta e non si vuol muovere è più facile convincere a spostarsi un muro di cemento armato. Stupido io che ci rimango male tutte le volte. Ora però l'orco Shrek è più ingrugnito di prima. Speriamo non mi faccia fare brutta figura e che la Principessa gli faccia tornare il buon umore!

Siamo in anticipo. Ci fermiamo un attimo a Lastra a Signa. Un caffè per giustificare la pipì, le batterie per la macchina fotografica, e un giretto in centro. Che ci sarà di bello a Lastra a Signa? Beh, intanto una porta...

L'atmosfera è strana. Stamattina minacciava pioggia. Ora c'è il sole... e quella nitidezza del cielo d'estate e quella luce del sole, troppa luce, che abbaglia le strade sonnolenti del sabato pomeriggio. La piazzetta sghemba induce prospettive incongrue. Il sole non riscalda. Ho freddo. Sento un che di claustrofobico, di minaccioso, in questo silenzio metafisico.

Piazza dell'Assenza. Il sole
non fa ombra a picco, non riscalda
manichini taciturni
né un piccione abbaia
l'interno farsi intorno (manca
l'uomo) nell'ordine di specchio:
misteriosa (se è) serenità.

Non ricordo neanche più quando l'ho scritta...

Oltrepassata la porta, la strada declina per un tratto. Poi una casa. Tutto qui ricorda il tenore Caruso. Ogni via, ogni muro una targa che segnala il suo passaggio...Ha mangiato qui!...Qui ha passeggiato!... Ma in quella casa c'è anche un'altra targa commemorativa...

Qui abitò dal 1916 al 1918 Dino Campana...

1918: l'anno che è entrato nel manicomio di Castelpulci, a Scandicci, per non uscirne più. A farlo uscir di matto fu proprio questo nitore oggettivo, questa luce positivistica che definisce i contorni delle piazze, questa violenta verità, questa bellezza senza senso...

... e la bellezza priva di senso della materia che mi sembra metafisica, così disse De Chirico. E anche la musa di Campana fu una Musa inquietante.

Ripenso alla sua vita tragica. Al bisogno di fuggire dall'espresso verso l'inesprimibile; dal caldo che affoca e dal nitore che acceca, al pulviscolo leonardesco che confonde e affascina, e restituisce il mistero verginale alle pallide rocce e un'ambiguità, forse ancora inquietante ma erotica, cioè vitale, non mortifera, al sorriso della Gioconda. Non un'inquietudine ossessiva, ma l'ossessione dell'inquietudine, del mistero religioso, dell'utopia, del canto di Orfeo che libera dagli inferi Euridice, della chimera...











LA CHIMERA

Non so se tra rocce il tuo pallido
viso m'apparve, o sorriso
di lontananze ignote
fosti, la china eburnea
fronte fulgente o giovine
suora de la Gioconda:
o delle primavere
spente, per i tuoi mitici pallori
o Regina o Regina adolescente:
ma per il tuo ignoto poema
di voluttà e di dolore
musica fanciulla esangue,
segnato di linea di sangue
nel cerchio delle labbra sinuose,
Regina della melodia:
ma per il vergine capo
reclino, io poeta notturno
vegliai le stelle vivide nei pelaghi del cielo,
io per il tuo dolce mistero
io per il tuo divenir taciturno.
Non so se la fiamma pallida
fu dei capelli il vivente
segno del tuo pallore,
dolce sul mio dolore,
sorriso di un volto notturno:
guardo le bianche rocce le mute fonti dei venti
e l'immobilità dei firmamenti
e i gonfi rivi che vanno piangenti
e l'ombre del lavoro umano curva là sui poggi algenti
e ancora per teneri cieli lontane chiare ombre correnti
e ancora ti chiamo ti chiamo Chimera.

[da Canti Orfici, 1914]


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