mercoledì 14 dicembre 2011

Firenze: città violenta?

Avevo 18 anni ed ero ingenuo come l'insetto davanti al camaleonte. Ma di bombe me ne intendevo. A Nuoro avevano fatto saltare un camion nella via sotto casa, e un'altra volta la basculante del garage dei nostri vicini. Perciò, quando quella notte del '93 sentii il botto e il mio compagno di appartamento si svegliò e mi chiese "cos'era, un tuono?", non ebbi dubbi: "È una bomba". Ma quelle erano cose grosse, era la mafia: non c'era da aver paura. All'epoca vivevo vicino alla stazione, tornavo spesso tardi, ma non ho mai visto nulla di particolare, a parte quei due balordi che rubavano la miscela al motorino. E le prostitute avevano 60 anni e lavoravano di giorno.
Poi, negli anni, la città è cambiata. Alcune vie, intorno al mercato di San Lorenzo ho iniziato ad evitarle. Paradossalmente, quando mi sono trasferito in centro, dietro Palazzo Vecchio, ho percepito la violenza. Non mi è mai successo niente, intendiamoci, ma tante notti sono stato svegliato dalle urla di ubriachi o da risse, che mi hanno fatto apprezzare di essere sotto le coperte e non in giro per strada.
Tempo fa, c'è stato un omicidio, proprio nella strada dove abitavo prima. Poi l'attentato al vescovo. Ora la strage xenofoba in piazza Dalmazia.
Episodio isolato, ha detto ieri Renzi. Sì, certo, però cominciano ad essere troppi questi episodi isolati.

venerdì 18 novembre 2011

Sinistra: mandiamo tutto a Monti

Ma non si erano alleati?...federati?...fidanzati?
Dico: PD, IDV e SEL.
Ora il PD dice sì al governo Monti, l'IDV dice ni e Vendola un santo di no.
Vai e fidati di questa armata brancaleone. Se ci fossero state le elezioni e avessero vinto, si sarebbero già divisi.

In crisi sì, ma sempre consumisti!

http://firenze.repubblica.it/cronaca/2011/11/17/foto/in_coda_all_alba_per_acquistare_versace_con_lo_sconto-25182005/1/

lunedì 24 ottobre 2011

- preti + prati

Siccome le chiese si svuotano, alcuni preti pensano bene di fare le loro prediche in tv. Gli argomenti sono i più disparati.
In questo momento, ce n'è uno su Rai due chiamato a disquisire sulla morte del povero pilota Simoncelli.
Libero ognuno di esprimere la sua opinione, direte voi. Tanto più un prete da cui ci si aspettano parole di verità.
Verissimo.
Il punto è che spesso mi capita di sentire parole che mi lasciano perplesso. E la mia perplessità non riguarda la sfera delle opinioni (evidentemente, ognuno ha la sua), riguarda invece la teologia. Come in questo caso.
Qualcuno sosteneva che Simoncelli era una persona adulta che ha scelto e voluto praticare uno sport rischioso. Dunque, bisognava rispettare la sua libertà. A questo punto, il prete ha preso la parola per dire che non c'è libertà che valga una vita umana.
Ma, mi domando, non è proprio Gesù che ci ha insegnato che la vita umana ha valore proprio in quanto libera? Se Dio tenesse più alla vita umana che alla libertà, non ci sarebbe il male, non ci sarebbe il dolore, non ci sarebbe la morte. Tantomeno la morte in croce. O sbaglio?

martedì 18 ottobre 2011

Zanzotto

Ho letto poco fa della morte di Andrea Zanzotto. La notizia mi ha rattristato, non solo perché quando muore un poeta è una perdita per l'intera società, ma perché, avendogli dedicato la mia tesi di laurea, era entrato nella mia vita. Me lo ero reso in qualche modo intimo. Avevo studiato tutte le sue opere, ovviamente, ma soprattutto avevo avuto modo di leggere la sua corrispondenza. In particolare, quella con l'allora direttore dell'Approdo letterario e radiofonico, il poeta Carlo Betocchi. Attraverso le lettere, avevo conosciuto due persone perbene, prima ancora che due poeti eccelsi, degni della migliore letteratura italiana.
C'è un aneddoto che mi rende cara la figura di Zanzotto: gli scrissi per chiedergli l'autorizzazione a pubblicare alcune lettere nella tesi. Vi erano in esse riferimenti alla sua vita privata, e non volevo essere indiscreto. Un giorno, mentre mi trovavo in cucina a prepararmi la cena, un mio compagno di appartamento mi passò una telefonata, dicendomi che si trattava di Zanzotto. Andai all'apparecchio, non prima di aver mandato a quel paese il mio amico, pensando a uno scherzo. Invece, già dal "pronto" con la forte inflessione veneta, non ho più avuto dubbi: il poeta che stavo studiando mi aveva telefonato a casa!
Ricordo solo la mia emozione e nessuna parola in particolare. Fu gentile. Mi chiese della tesi e della professoressa che mi faceva da relatrice. Mi diede l'autorizzazione, e addirittura sembrava più lui grato a me che io a lui!
Ecco, quello che mi porto dentro di Zanzotto è quella umiltà, gentilezza, educazione d'altri tempi, unite per contro all'estrema modernità e innovazione dei suoi versi.

domenica 16 ottobre 2011

Indignati

Ieri, in tutto il mondo, hanno manifestato i cosiddetti indignati. Solo in Italia la manifestazione è sfociata in violenza, con il solito corollario di vetrine spaccate, cassonetti bruciati, feriti, ecc.
Perché?!
Sono gli italiani più violenti degli altri?
Come al solito, l'occasione è buona perché la destra dica che quelli di sinistra sono dei violenti che sfasciano le città, e quelli di sinistra dicano che si è trattato di infiltrati di destra o addirittura dello Stato (Cossiga docet).
È un discorso vecchio di 50 anni. Si diceva la stessa cosa nelle manifestazioni dal '68 in poi.
Perché siamo ancora fermi lì?
Perché in Spagna, a Madrid, dove il movimento degli indignati è nato, si sono ritrovate in piazza centinaia di migliaia di persone, che hanno ballato, cantato, urlato i loro slogan, senza il benché minimo incidente? Perché a New York la gente ha sfilato pacificamente per le strade, armata solo di cartelli colorati?
Perché da noi no?
Lasciando perdere le contrapposizioni, appare evidente a tutti che le violenze di ieri a Roma hanno danneggiato soprattutto le ragioni del movimento (sulle quali nessuno ha da dire nulla, da Obama a Draghi, e ci mancherebbe!).
Dunque, perché non sotterrare l'ascia di guerra e fare in modo, alla prossima occasione, che gli organizzatori delle grandi manifestazioni in Italia collaborino preventivamente con le forze dell'ordine perché la manifestazione sia tutelata e riesca nel migliore dei modi? Sarebbe nell'interesse di tutti. Non si può pretendere che i cosiddetti blakbloc siano fermati dagli stessi manifestanti (che li dovrebbero isolare: ma vai e ragiona con cento energumeni incappucciati e armati), né che se ne occupino le sole forze dell'ordine (vai e pescali una volta che si sono mischiati agli altri manifestanti).
Insomma, bisognerebbe uscire dall'infantile tentazione di scaricarsi le responsabilità (È colpa tua! No, tua!), e cercare di aiutarsi a vicenda, perché anche da noi si possa esercitare il diritto costituzionale di manifestare. Perché di questo alla fine si tratta: ieri, ancora una volta, l'Italia ha fatto capire al mondo di essere una democrazia malata. Bisogna prenderne atto. Per un po' di tempo, nelle nostre città, i manifestanti vanno scortati come si fa con i tifosi che vengono accompagnati allo stadio: cordoni di polizia li devono separare dagli altri. Perché sia fattibile, è necessario che siano gli stessi manifestanti a volerlo, collaborando a creare i "cordoni", in un clima di reciproco aiuto con chi è preposto alla difesa dei cittadini.
Fossi io fra gli organizzatori di queste manifestazioni, mi preoccuperei di andare per tempo da prefetto e questore per mettermi a disposizione e allo stesso tempo per pretendere che i violenti fossero individuati e neutralizzati prima di poter fare danni, non dopo che hanno messo a ferro e fuoco quella piazza che è, e deve rimanere, del popolo.

lunedì 10 ottobre 2011

A scuola

1)
Preside:
- Di nuovo tu? Ma non ti vergogni di farti accompagnare sempre in presidenza?

Bambino:
- No.

2)
Professore:
- Allora ragazzi... Nella Costituzione sono scritti i nostri diritti, le nostre libertà. Per esempio, la libertà di pensiero, di stampa, il divieto di censura... Aprite la Costituzione all'articolo 21... Saltate pure l'introduzione, gli articoli sono dopo in numero progressivo...

Bambino (mano alzata e sguardo trionfante):
- Professore? La mi' mamma ha preso questa edizione, con l'introduzione di Marco Travaglio, ma come vede l'ha tagliata tutta con le forbici. Quindi ho subito gli articoli!

Professore:
- Ecco, appunto.

domenica 9 ottobre 2011

Carnage - recensione

Manhattan, parco pubblico. Sullo sfondo lo skyline amputato, le torri-totem delle nostre certezze crollate, l’assenza. Due alberi inquadrano la scena: un gruppo di ragazzini in lontananza si muove in avanti, verso il proscenio. Li vediamo approssimarsi a noi con un movimento lento e inesorabile: acido come un rigurgito di bile, perturbante come una colpa rimossa che riemerge alla coscienza. Il dover essere e l’essere. Non possiamo non vedere. Quei bambini stanno giocando, dovrebbero giocare. Ma, ecco: uno spintone, un altro, un altro ancora. Sono ragazzi, succede. Poi, però, l’attimo che precipita: il ramo stretto nella mano adolescente diventa la clava primordiale. Un fendente colpisce in pieno viso il rivale. Volano gli incisivi rotti. La violenza ha tracimato, travolgendo due massimi tabù della cultura occidentale: la civile convivenza e l’immagine.

Bisogna ricomporre. Il diritto deve essere riaffermato. Ripristinare la legalità, la pace, l’armonia è un compito che spetta ai sacri custodi della comunità: gli adulti-giudici, i genitori. Il rito viene officiato nella dimora borghese dei coniugi Longstreet, Penelope e Michael, parte lesa, alla presenza della madre e del padre dell’aggressore, i Cowen, Nancy e Alan. Non dovrebbe volerci molto: è sufficiente scrivere, leggere, dialogare. In definitiva, è una questione di linguaggio. Bisogna parlare, cominciando con l’ammettere la nudità della colpa, la vergogna di sapersi nudi, perché poi il mantello misericordioso del perdono le ricopra.

Comunicare, dunque. Ascoltare e argomentare. Questi sono gli antidoti all’istinto brutale. La cultura eleva l’uomo dall’animale. E sia i Longstreet che i Cowen possono dirsi persone colte. Nancy è un broker finanziario, volubile come i mercati, ma stranamente debole di stomaco per reggerne i flutti. Alan è un legale, cinico e dipendente dal BlackBerry. Michael non è un intellettuale, ma è un piccolo imprenditore che conosce il suo mestiere. Penelope è addirittura una scrittrice, anche se di un solo romanzo; è impegnata nel sociale ed ama l’arte. Soprattutto, Oskar Kokoschka.

Ma il pittore e drammaturgo austriaco è quanto di più lontano ci possa essere da Penelope. Lei è rigida, moralista, inchiodata ai dogmi del suo Super-io. Lui è stato anarchico, libertario, ha dipinto l’inconscio freudiano; ha messo in scena la contrapposizione archetipica e drammatica tra uomo e donna, per ricomporla nella sintesi dell’Uomo Nuovo; ha destrutturato il linguaggio pittorico per rappresentare il caos della vita moderna, in cui non c’è più un sistema filosofico strutturale e normativo ma un movimento caotico di atomi-individui, tanto più vitale ed autentico quanto più libero nel suo esistere. Penelope vive il suo matrimonio nelle quattro mura newyorkesi, Kokoschka ha fatto vivere la sua sposa nel vento.

E, come nei quadri di Kokoschka i segni colorati si emancipano dalla prospettiva, in un movimento ora ripido ora piano, prima vorticoso poi tranquillo, sereno e agitato, tenero e ribelle, ma sempre vitale, così i quattro sacerdoti dell’ortodossia sociale (Nancy, Alan, Penelope e Michael), si affrancano subito dal dover essere coppie felici, solide e solidali, complici e in sintonia, perbene. L’armonia del loro quartetto si scompone e si ricompone continuamente, con nuove strategie e nuove alleanze. Non arrivando però mai alla sintesi della comprensione reciproca, sia a livello individuale che di coppia. L’unisono è solo episodico e accidentale. È musica da camera, non orchestrale. E la camera sono le quattro mura domestiche dei Longstreet, dove gli specchi fanno da cassa di risonanza, riflettendo il suono senza che questo trovi una via d’uscita. Le parole sono note suonate in un continuo crescendo. Il circuito sonoro è chiuso come dalle cuffie di un ipod.

Come in un Kammerspiel di Murnau, la macchina da presa di Polański riprende questo carcere da vicino, rendendoci spettatori dentro la scena, senza esserne protagonisti. Possiamo vedere le smorfie del viso, le sfumature ironiche negli sguardi, la verità dei volti sotto le maschere. Primissimi piani, dettagli, ci rendono ricercatori con l’occhio sulla lente del microscopio. Nel vetrino c’è la violenza degli adulti. Non quella dei bambini, destinata a ricomporsi naturalmente.

È, in definitiva, l’American dream, che per Polański rappresenta l’incubo ancora attuale del carcere, per un tabù violato nel lontano 1977.

giovedì 6 ottobre 2011

Ammazza blog

Ad oggi, pare che la norma ammazza blog sia destinata ad essere emendata. L'obbligo di rettifica rimarrà solo per le testate giornalistiche online.
Meglio così.
Certo che, con tutto quello che c'è da fare per il nostro Paese che va a rotoli, vedere il Parlamento discutere di norme che limitano il diritto di espressione, intaccando di fatto la Costituzione, è sconfortante.
Quand'è che ci libereremo di questa gente?
Solo ora comincio a capire il perché del diluvio universale...
Vedere wikipedia oscurata è qualcosa che fa male al cuore. Mi domando perché continuiamo a subire passivamente il restringimento dei nostri spazi di libertà. Ci sarà un modo non-violento e democratico per difendere i nostri diritti! O no?

venerdì 23 settembre 2011

Che si fa, azzardiamo?

Tempo fa, un amico edotto di macroeconomia mi dava la ricetta per affrontare la crisi, cioè...giocare al Superenalotto.

Non sono un giocatore incallito, però, ogni tanto, tento la sorte con un "gratta e vinci". Non vinco molto: al massimo 20 euro.

La cosa strana è che, quando vado a riscuotere la vincita, il tabaccaio di turno mi guarda malissimo. Oggi, per esempio, sono andato a riscuotere 10 euro (quindi è come se ne avessi vinto 5, dato che il "gratta e vinci" in questione costa cinque euro). Ho detto: "ho vinto dieci euro", mostrando il cartoncino grattato. Il tabaccaio l'ha guardato come se fosse un vetrino per un tecnico di laboratorio al microscopio, o come si esamina l'oro al banco dei pegni. Poi si è arreso all'evidenza della vincita, e mi ha chiesto: "Le do...?". "Dieci euro!", ho risposto.

Ecco. È a questo punto che mi ha guardato malissimo, consegnandomi sprezzante la banconota da dieci. Mancava solo che mi desse del pezzente.

Evidentemente, si aspettava che mi facessi dare un altro "gratta e vinci", invece che riscuotere i contanti. Ma, se facessi così, mi sentirei un drogato del gioco d'azzardo.

Tutto voglio, fuorché dare a questo Stato che non ci rappresenta la soddisfazione di trasformare i cittadini in viziosi giocatori. Non con me. Non avrà il mio scalpo. Preferisco la filosofia di Woody Allen: prendi i soldi e scappa.

giovedì 22 settembre 2011

Summa lex summa iniuria

Il voto di oggi in Parlamento, che ha negato l'arresto di Milanese, con uno scarto di sei voti, dimostra che esiste una maggioranza numerica ma non politica.
Il Paese è ostaggio del Parlamento.
Il capo dello Stato si trincera dietro i numeri, sostenendo che finché ci sono non può sciogliere le camere. In questo modo, si rende complice di questa situazione. Dovrebbe sapere che summa lex = summa iniuria. E lui più di tutti dovrebbe sapere che la Costituzione richiede una maggioranza politica, non meramente numerica.
Solo Napolitano può liberarci da queste catene, sciogliendo le Camere e indicendo nuove elezioni. O al massimo dando l'incarico a un governo di solidarietà nazionale.

mercoledì 14 settembre 2011

Primo giorno di scuola

Per me significa:
1) Ricordarsi di essere insegnante e non alunno.
2) Dormire male la sera prima, sognando di essere interrogato, non d'interrogare.
3) Fare uno sforzo mentale per uscire di casa all'ora giusta, senza dimenticare nessuno dei libri che servono per fare lezione.
4) Non ricordarsi quanto può arrivare a pesare una 24ore e sentire di conseguenza dolori forti alla spalla e alla schiena, nonché avere in un secondo le dita intorpidite, in attesa che si riformino i calli.
5) Recarsi alla fermata dell'autobus, senza avere la più pallida idea né degli orari, né se per caso è cambiata la fermata.
6) Non trovare posto nel suddetto bus e farsela tutta in piedi, perché si è ancora troppo addormentati per vincere la battaglia di gomitate e spintoni.
7) Non essere più abituati agli afrori della varia umanità che usa i mezzi pubblici.
8) Vedere uno che sale sul bus vestito da pezzente e con la faccia da delinquente, temere che sia ubriaco e che dia in escandescenze, picchiando qualcuno. Oppure, che indossi una cintura esplosiva e si faccia esplodere. E invece indossa un tesserino e ti dice: "buongiorno, biglietti per cortesia!"
9) Rivivere il maleficio per cui i tuoi alunni sono sempre giovani e tu sempre più vecchio.
10) Spiegare alla classe che essere democratici significa essere consapevoli delle proprie libertà ma soprattutto di quelle altrui. E poi vedere all'uscita da scuola due alunne che vanno in una sola bici: una ai pedali e l'altra in piedi sul cestino di dietro; sgridarle per la loro imprudenza, vederle partire lo stesso gridando felici: "Profe: è un atto democratico!"

P.S. 11) aspettare un'ora alla fermata, perché il bus di ritorno ha saltato una corsa.

domenica 11 settembre 2011

Io c'ero

L'altra sera sono stato alla serata di Emergency, al teatro Verdi. C'era la figlia di Gino Strada, Cecilia. Gad Lerner faceva il moderatore-presentatore. Ospiti, tra gli altri, il sindaco di Firenze, Matteo Renzi, e quello di Milano, Giuliano Pisapia. L'incontro ha avuto un'eco sui quotidiani nazionali, per due motivi: l'annuncio dato da Cecilia Strada che il volontario di Emergency rapito in Africa stava bene e se ne attendeva presto la liberazione, e la contestazione a Renzi, appostrofato come "buffone" o "berluschino".
In realtà, non voglio sindacare qui le ragioni dei contestatori, però mi ha colpito il fatto che il sindaco a fine serata sia sceso dal palco e si sia intrattenuto a parlare con chi lo aveva insultato per tutto il tempo, senza quasi farlo parlare e rischiando di rovinare la festa di Emergency. Mi domando se un altro politico l'avrebbe fatto o, piuttosto, non sarebbe uscito dal retro (es. D'Alema). Magari se le cerca, Renzi, usando una retorica effettivamente da "berluschino", o smarcandosi sempre dalle posizioni della sinistra radicale e della CGIL, però ha dimostrato nell'occasione di saper ascoltare. Cosa, per un politico di oggi, non da poco.
Pisapia, invece, in più di un'occasione ha fatto il filo al sentire della platea, con battute ad affetto, strappa-applausi. Però ha anche detto una cosa che, se l'avesse detta Renzi, l'avrebbero linciato. Ha detto di aver "lottato" con il ministro La Russa per far togliere l'esercito dalle strade di Milano (e qui giù applausi e fischi per La Russa); poi però ha aggiunto che da quel giorno non dorme la notte al pensiero che se domani un extracomunitario si macchiasse di un qualche reato (violenza sessuale o altro), quelli stessi che lo hanno osannato per aver tolto l'esercito lo criticherebbero per non saper gestire la sicurezza. Mi è sembrata una sferzata non da poco a certo elettorato di sinistra. Non solo: ha pure rincarato la dose, dicendo che quando la Lega ha fatto i manifesti su "zingaropoli", questi hanno fatto presa e lui è dovuto tornare nei quartieri dove già aveva fatto campagna elettorale, ricevendo applausi e consenso, per fare opera di "riconvincimento".
Insomma, le stoccate alla sinistra, secondo me, questa volta sono più venute dal sindaco di Milano che da quello di Firenze. Eppure il popolo ha osannato il primo e condannato il secondo.
Non sembri questa una propaganda per Renzi. Spesso non condivido le sue posizioni e sono semmai più vicino a quelle espresse da Pisapia; però mi sembra che ci sia un pregiudizio doppio da parte della gente, alimentato dai giornali (Lerner era chiaramente benevolo con Pisapia e scettico con Renzi): uno ostile a Renzi a prescindere, e uno favorevole, altrettanto a prescindere, per Pisapia. Quest'ultimo, secondo me, è il primo a rendersene conto, e a temere un voltafaccia.
Per entrambi, parleranno i fatti. E solo quelli dovremmo da elettori imparare a giudicare, per non cadere nella trappola della cultura dell'immagine, che è poi il primo aspetto del "berlusconismo".

martedì 6 settembre 2011

Lo stato dell'arte

A Firenze non c'è solo il mercato di San Lorenzo, c'è anche il mercatino di S. Ambrogio. Tutt'altro genere di mercanzia: di là pellame e souvenirs, di qua carabattole di pseudo antiquariato.

Ogni tanto si sente in qualche notizia di cronaca di qualcuno che compra al mercatino delle pulci un disegno autentico di Michelangelo, o una prima edizione autografa di Baudelaire. Gli amanti del genere sognano il colpaccio, come un giocatore incallito il 6 al superenalotto. E le probabilità penso siano le stesse.

A me è successo il contrario. Ho trovato al mercatino di S. Ambrogio una bancarella sgangherata di un tipo altrettanto sgangherato. Era un ragazzo giovane, evidentemente omosessuale, con due fondi di bottiglia al posto delle lenti degli occhiali. Vendeva dei disegni fatti da sua nonna. Si trattava di modellini di abiti da donna. Spiegò che sua nonna aveva lavorato per una casa di moda (al momento non ricordo quale fosse) e che i modelli erano tutti originali. Tutti quei vestiti erano stati realizzati e qualcuno era stato indossato anche da qualche star dell'epoca.

Incuriosito dal personaggio, mi sono convinto a compragli un paio di quei disegni per cinque euro l'uno, domandandomi se la nonna era al corrente della vendita ed era soprattutto d'accordo a disfarsi del lavoro di una vita. Magari sì, lo faceva volentieri per aiutare quel nipote un po' stravagante ed evidentemente bisognoso di qualche spicciolo. Magari no, o non era in grado d'intendere e di volere per difendere i suoi lavori.

Sta di fatto che, un paio di giorni fa, mi è capitato di passeggiare per quella via di Firenze dove ci sono tutti i negozi delle più grandi case di moda. I pochi fondi liberi sono comunque occupati da negozi di gran lusso. C'è ad esempio un noto antiquario, che vende incunaboli o libri rari, risalenti anche al Medioevo, e stampe antiche. Mi sono fermato a guardare la vetrina, colpito da un disegno d'epoca in cui si vedeva la facciata originale di Santa Maria del Fiore. In città è ancora fresca la polemica per la proposta del sindaco Matteo Renzi di rifare la facciata della Basilica di San Lorenzo sul progetto originale di Michelangelo, perciò mi sono interessato all'argomento. Mentre studiavo i particolari del disegno del Duomo, però, il mio occhio è stato attirato da alcuni disegni che stavano esposti poco sotto.

Si trattava inequivocabilmente degli stessi modellini che avevo acquistato mesi prima al mercatino di S. Ambrogio! Senza alcun dubbio erano quelli della nonna-stilista! La mia sorpresa è stata enorme, ma si è ulteriormente rafforzata quando ho notato il cartellino del prezzo: 100 euro!!

Delle due l'una: o io ho acquistato due Michelangelo, oppure qualche amante dell'antiquariato rischia di prendere una sonora fregatura!


venerdì 15 luglio 2011

Il mondo deve sapere



Siccome il libro in questione non si è visto nel filmato pubblico qui sotto la foto della copertina:

martedì 12 luglio 2011

Buone letture

Come al solito, consiglio libri già usciti da tanto, che molti avranno letto e riletto. Il fatto di aspettare l'edizione economica, o il regalo di qualche anima pia, mi fa accumulare un certo ritardo rispetto ai recensori professionisti.

Chissenefrega. Per quelli come me che vorrebbero lasciare lo stipendio in libreria ma non possono perché se no non mangiano, consiglio tre libri che ho appena letto.

Noterete subito che si tratta di letture estive...


1) Leggere Lolita a Teheran di Azar Nafisi, è il classico libro "importante", che tutti dovrebbero conoscere per imparare cosa sia una dittatura, non solo militare o politica ma anche culturale, o addirittura familiare. Leggerlo è fondamentale per noi italiani, che ogni tanto ci dimentichiamo del nostro passato e ci ritroviamo, senza quasi accorgercene, o peggio con rassegnazione, nel mezzo di un nuovo "ventennio", seppure camuffato da democrazia. Cosa non secondaria, il libro ti fa ri-innamorare della letteratura, facendo venire voglia di riaprire i classici (soprattutto del mondo anglosassone).




2) Per restare in tema di dittatura, Fratelli di sangue è un saggio che apre gli occhi sulla dittatura mafiosa che impera in Italia, ancora prima che l'Italia nascesse. In particolare, il pm Nicola Gratteri, insieme a Antonio Nicaso, tracciano un quadro dettagliatissimo e documentatissimo dell'organizzazione criminale al momento più forte: la 'ndrangheta. Il quadro è scoraggiante: man mano che si scorrono le pagine del libro ci si chiede se ci libereremo mai di questo cancro che ha metastasi in tutto il tessuto sociale, dal Nord al Sud (e sottolineo al Nord!) del Paese.



3) Per ritrovare un po' di speranza, bisogna leggere Vieni via con me di Roberto Saviano. E' già l'autore di per se stesso, con la sua testimonianza di vita, che ti restituisce un po' di ottimismo. Gli italiani onesti, coraggiosi, forti, ci sono! Il libro riporta i monologhi televisivi della fortunata trasmissione. Vale la pena leggerli, anche per chi come me ha visto tutte le puntate. Se qualcuno li ha trovati noiosi, cambierà idea nella lettura, che invece risulta scorrevole, stimolante, e sempre interessante. Altra buona ragione per comprare il libro è l'ostracismo politico che la Rai ha incredibilmente messo in atto, prima durante e dopo la messa in onda, e che costringerà gli autori a riproporre il programma non più nella tv pubblica.

martedì 5 luglio 2011

Notiziona!!! Francesco De Gregori sbarca sul web!

Era ora! Meglio tardi che mai...

De Gregori apre un sito web: http://www.francescodegregori.net

Naturalmente, metto subito il link del sito fra gli altri nella colonna in basso a destra.
Intanto, date un'occhiata alla presentazione su Repubblica:

http://tv.repubblica.it/spettacoli-e-cultura/de-gregori-sempre-e-per-sempre/72043/70327

http://tv.repubblica.it/palinsesto/2011-07-04/10236

martedì 28 giugno 2011

Backstage del Film "Su Re" di Giovanni Columbu


Su indicazione del buon Vedele, che mi tiene aggiornato sulle cose sarde, pubblico il backstage del nuovo film di Columbu, "Su Re". Essendo un critico cialtrone, non lo faccio per dare un giudizio sulla filmografia del regista sardo, o per raffrontare questo progetto con il Vangelo secondo Pasolini. L'unico motivo che mi spinge alla pubblicazione è che mi fanno piegare dalle risate le interviste al protagonista e agli altri attori.
Bette pastorazzi!! :-)

lunedì 30 maggio 2011

Tutti i cittadini sono uguali davanti alla legge...

Guardate un po' cosa succede nella scuola di oggi:

Il rinnegato

Pubblicato il 27 maggio 2011 da antonella landi (http://www.antonellalandi.com/blog/)

Nella scuola dove insegno non c’è una classe che non accolga una percentuale molto alta di studenti stranieri. Filippini, arabi, egiziani, rumeni, peruviani, polacchi. E poi quella valanga di cinesi. Tanto che a volte mi chiedo se sono a scuola o se mi sono persa dentro un mercatino multietnico. In una classe che mi sta particolarmente a cuore (la stessa con cui un paio di giorni fa ho fatto quella litigata da innamorata) emerge vistosa quella che io chiamo la compagine albanese, un quartetto (tre maschi e una femmina) proveniente dall’Albania, tutti belli, tutti fascinosi e tutti molto buffi.

“Profe -dice stamani uno di loro- da ieri sono italiano anch’io.”
“In che senso?”
“La mia famiglia ha chiesto e ottenuto la cittadinanza. Non sono più albanese: ora sono italiano come lei.”
“Davvero? Ma senti che storia! E come ti senti?”
“Benissimo. Solo… detto tra noi… tutti questi albanesi di merda in classe mi danno un po’ fastidio.”

domenica 1 maggio 2011

Habemus papam - recensione


È uscito da due settimane. Ha già ottenuto un lusinghiero successo al botteghino: nell’ultimo weekend si è classificato secondo, dietro solamente a Rio, l’ennesimo cartone animato in 3D della 20th Century Fox. La critica ha avuto modo di esprimersi in lungo e in largo, scrivendo tutto e il contrario di tutto. Anche la vox populi ha toccato tutte le sfumature del giudizio, dal “boicottiamolo, è blasfemo!” al “capolavoro”.

Alcuni critici, hanno preferito un atteggiamento più prudente (ad esempio, Mereghetti su corriere.it), limitandosi alle prime impressioni a caldo e rimandando un giudizio analitico a una seconda visione. Probabilmente, è questo l’approccio più corretto. In effetti, trovare una chiave di lettura per Habemus papam, l’ultimo film di Nanni Moretti, non è semplice.

Si fa prima a dire cosa non è. Non è un film di denuncia politica contro il potere della gerarchia ecclesiastica. Quanti si aspettavano una cosa del genere sono rimasti delusi. Sì, certo: il collegio cardinalizio è mostrato più come un circolo anziani, alle prese con pastiglie per la pressione o coadiuvanti per il sonno, che come un gruppo di teologi e leaders spirituali. E anche il papa accenna alle “tante cose da cambiare” nella Chiesa. Ma si tratta, per l’appunto, di un accenno. La sceneggiatura, scritta a tre mani da Nanni Moretti stesso, Francesco Piccolo, e Federica Pontremoli, non calca la mano su questi aspetti. Anzi, chi ha notato un atteggiamento bonario nei confronti degli alti prelati, tipicamente romano, cioè espresso da chi, nato e vissuto nella Capitale, al Vaticano c’è abituato e anche un po’ affezionato, ha probabilmente colto nel segno.

Gli “oscurantisti boys”, ovvero coloro che vedono nella figura del papa l’incarnazione di un potere pericoloso e anti-moderno, non potranno appoggiare le loro tesi su questo film, che gli restituisce invece un pontefice umanissimo, col quale è molto facile empatizzare. Complice l’interpretazione di Michel Piccoli, meravigliosamente misurata e minimalista, prima del papa o del cardinale Melville, ma anche prima dell’attore mancato, si staglia davanti agli occhi dello spettatore un uomo a tutto tondo, capace di rinunciare al potere. Una rinuncia, però, mai esibita in chiave polemica, evidentemente per precisa scelta autoriale.

A questo punto, avrebbe potuto essere un film intimista. La raffigurazione del tormento interiore di un personaggio, l’analisi (o meglio la psico-analisi) delle motivazioni profonde del “gran rifiuto”, non fatto per viltà, questa volta, ma per chissà quali buchi neri dell’inconscio. Invece, no. Habemus papam non è neanche questo. L’incontro tra il personaggio del papa e quello dello psicanalista “più bravo di tutti”, interpretato da Nanni Moretti, dura lo spazio di poche scene. E anche le sedute del “fuggitivo” con la psicanalista donna (Margherita Buy) non hanno nulla di terapeutico. Non per incomunicabilità tra l’anima e l’inconscio, ma, ancora una volta, per il disinteresse autoriale a trattare il tema. È vero: gli psicanalisti in questo film hanno l’autorevolezza professionale dell’avvocato Azzecca-garbugli, ma Habemus papam non tratta della psicoanalisi e dei suoi fallimenti.

Quantomeno, non solo. Di sicuro, né la Chiesa, nella sua gerarchia, né la psicoanalisi, “nei suoi due più bravi esponenti”, riescono ad interpretare la realtà. Dunque è un film a tesi, sull’imperscrutabilità del reale? Forse che sì, forse che no. Più no che sì.

Rebus sic stantibus, verrebbe voglia di concludere che il film non riesce a trovare la sua direzione e che si tratti quindi di un’opera non riuscita. Ma neanche questo appare un giudizio centrato. L’intelligenza di Nanni Moretti, la sua capacità di riflessione, la sua ironia, unite all’indubbia capacità d’autore cinematografico, impongono di concedere al film un surplus di attenzione critica. Non perché un grande regista non possa sbagliare un film, o non possa anche lui dire qualcosa di banale, ma perché sono le sequenze stesse di Habemus papam a suggerire una complessità del racconto che necessità di una rilettura. Bisogna lasciarlo riposare, questo vino, per gustarne appieno il sapore.

Ma l’approccio da sommelier si confà solo ai critici o ai cinefili. A loro si dovrà lasciare il compito di scovare il sottotesto letterario e cinematografico, magari analizzando Habemus papam come un nuovo capitolo del discorso narcisistico sull’agonismo, tanto caro al regista romano. In effetti, per la prima volta, Moretti sembra voler indagare proprio l’altra metà del cielo, quella di chi non solo la partita non la vuole vincere, ma neanche la gioca! Si può leggere in questo la critica velata alla Chiesa di oggi? Il non mischiarsi nell’agone della vita quotidiana per affrontarne la complessità? Se così fosse, sarebbe un appunto costruttivo sul quale riflettere, magari discutere, non certo censurare. In ogni caso, le dichiarazioni autentiche di Moretti, sempre ermetiche, non fanno cenno a questo aspetto, né indulgono alla polemica, anzi la rifuggono. Un critico bravo, d’altro canto, riesce a far dire all’opera più di quanto aveva immaginato lo stesso autore.

Il regista si è limitato a dire che voleva far ridere e commuovere (non è davvero poco!); che i cardinali erano i suoi cardinali e il papa il suo papa, senza altre pretese che di mostrarsi umanissimi; infine, che “a volte si può dire di no, rinunciare”. Ridere e commuovere: questi gli obiettivi del suo film. Rinunciare: questa la provocazione intellettuale. Forse fumata nera per i critici, ma fumata bianca per una serata al cinema da spettatori: habemus film.

giovedì 14 aprile 2011

Boris, il film

Boris è un discorso sul cinema, ma non è metacinema. Non lo è perché gli manca il concetto astratto, l’intento filosofico. È una satira politica sul mondo del grande e del piccolo schermo in Italia. Più in generale, è una riflessione amara sull’involuzione culturale del nostro Paese.

Perso anche il ricordo dei marinai, si sono estinti da tempo i poeti. L’Italia della crisi non è fondata sul lavoro, ma sugli espedienti per lavorare. La sovranità non appartiene al popolo, perché un popolo, semplicemente, non c’è. Tantomeno, dopo centocinquant’anni, un pueblo unido. La sovranità appartiene al pubblico, che la esercita nelle forme e nei limiti del palinsesto.

Il cinema non è la settima arte. Nella nuova gerarchia: «Prima c’è la tv, poi il cinema, poi la radio, e poi la morte». Gli attori non sono artisti, né artigiani. Sono psicolabili buoni per il lettino di uno psicologo. Il massimo che possono fare è portare sul set le maschere della commedia dell’arte. Non Arlecchino servitore di due padroni, però. Il loro padrone, semmai, è uno solo: la droga. Emarginati nella vita, pagherebbero per un primo piano. Lavorano con le parole, ma restano afoni se non hanno un po’ di coccole. Frequentano la crisi isterica, la depressione, il suicidio, l’overdose. Gli sceneggiatori, poi, non sono scrittori, non appartengono al mondo della letteratura. Sono capaci di produrre qualunque tipo di testo, ma non sanno scrivere. Cuochi da impepata di cozze. Possono discutere per ore della forma corretta di un congiuntivo, salvo poi farlo usare da quattro ragazzi-ghostwriter nel retrobottega. Se vincono un Oscar, è a un tavolo da gioco, per una mano fortunata. I registi, infine, nell’Italia della Casta, sono direttori d’orchestra senza bacchetta. Compositori su un pentagramma già scritto. Quelli di loro che ancora leggono libri, coltivano idee, si autocondannano a un divano di acari, dove consumano cene solitarie e documentari alla tv. Perché la creazione non pertiene loro, ma alla dea Produzione: l’onnisciente conoscitrice dei gusti della Gente. Il tutto sottoposto a una divinità più potente, il Denaro: «Ho fatto Ronconi, ho fatto Sorrentino… e mo’ ho fatto i sordi

E in Italia fare i soldi con il cinema significa una cosa sola: il cinepanettone. Un Leviatano emerso dagli abissi che si nutre di tutto ciò che è cultura, impegno, riflessione profonda sulle cose, arte. Un mostro allo stesso tempo selvaggio e addomesticato, come un animale da circo. Gli spettatori pagano per andarlo a vedere. E si divertono, ridono!

Insomma, un quadro desolante. Disperante come una strada senza uscita: «Non si esce dalla televisione, è come la mafia, non se ne esce se non morti». Il punto è: le cose stanno davvero così? Sì, no, forse. Che in Italia i cinepanettoni facciano incetta di incassi è un fatto. Ma che non si produca o non ci sia spazio nelle sale per un cinema di qualità non è vero. Basta guardare, per esempio, ai film italiani in procinto di partecipare, in concorso o fuori, al prossimo Festival di Cannes e scorrere i nomi dei registi che li hanno diretti: Marco Tullio Giordana, Nanni Moretti, Paolo Sorrentino, Pupi Avati, Emanuele Crialese. Senza contare che, prima ancora che la prestigiosa kermesse francese abbia avuto inizio, un vincitore c’è già, ed è per l’appunto italiano. È Bernardo Bertolucci, che il prossimo 11 maggio, durante la cerimonia d’apertura, riceverà dalle mani del Presidente della giuria, Robert De Niro, “suo” attore in Novecento, la Palma d’oro alla carriera. Dunque, forse, il cinema italiano di qualità non è morto. Magari è rimasto solo, come l’ultimo pesce rosso di cui bisognerebbe avere cura perché l’acquario non rimanga disabitato. Un pesce di nome Boris.