domenica 9 ottobre 2011

Carnage - recensione

Manhattan, parco pubblico. Sullo sfondo lo skyline amputato, le torri-totem delle nostre certezze crollate, l’assenza. Due alberi inquadrano la scena: un gruppo di ragazzini in lontananza si muove in avanti, verso il proscenio. Li vediamo approssimarsi a noi con un movimento lento e inesorabile: acido come un rigurgito di bile, perturbante come una colpa rimossa che riemerge alla coscienza. Il dover essere e l’essere. Non possiamo non vedere. Quei bambini stanno giocando, dovrebbero giocare. Ma, ecco: uno spintone, un altro, un altro ancora. Sono ragazzi, succede. Poi, però, l’attimo che precipita: il ramo stretto nella mano adolescente diventa la clava primordiale. Un fendente colpisce in pieno viso il rivale. Volano gli incisivi rotti. La violenza ha tracimato, travolgendo due massimi tabù della cultura occidentale: la civile convivenza e l’immagine.

Bisogna ricomporre. Il diritto deve essere riaffermato. Ripristinare la legalità, la pace, l’armonia è un compito che spetta ai sacri custodi della comunità: gli adulti-giudici, i genitori. Il rito viene officiato nella dimora borghese dei coniugi Longstreet, Penelope e Michael, parte lesa, alla presenza della madre e del padre dell’aggressore, i Cowen, Nancy e Alan. Non dovrebbe volerci molto: è sufficiente scrivere, leggere, dialogare. In definitiva, è una questione di linguaggio. Bisogna parlare, cominciando con l’ammettere la nudità della colpa, la vergogna di sapersi nudi, perché poi il mantello misericordioso del perdono le ricopra.

Comunicare, dunque. Ascoltare e argomentare. Questi sono gli antidoti all’istinto brutale. La cultura eleva l’uomo dall’animale. E sia i Longstreet che i Cowen possono dirsi persone colte. Nancy è un broker finanziario, volubile come i mercati, ma stranamente debole di stomaco per reggerne i flutti. Alan è un legale, cinico e dipendente dal BlackBerry. Michael non è un intellettuale, ma è un piccolo imprenditore che conosce il suo mestiere. Penelope è addirittura una scrittrice, anche se di un solo romanzo; è impegnata nel sociale ed ama l’arte. Soprattutto, Oskar Kokoschka.

Ma il pittore e drammaturgo austriaco è quanto di più lontano ci possa essere da Penelope. Lei è rigida, moralista, inchiodata ai dogmi del suo Super-io. Lui è stato anarchico, libertario, ha dipinto l’inconscio freudiano; ha messo in scena la contrapposizione archetipica e drammatica tra uomo e donna, per ricomporla nella sintesi dell’Uomo Nuovo; ha destrutturato il linguaggio pittorico per rappresentare il caos della vita moderna, in cui non c’è più un sistema filosofico strutturale e normativo ma un movimento caotico di atomi-individui, tanto più vitale ed autentico quanto più libero nel suo esistere. Penelope vive il suo matrimonio nelle quattro mura newyorkesi, Kokoschka ha fatto vivere la sua sposa nel vento.

E, come nei quadri di Kokoschka i segni colorati si emancipano dalla prospettiva, in un movimento ora ripido ora piano, prima vorticoso poi tranquillo, sereno e agitato, tenero e ribelle, ma sempre vitale, così i quattro sacerdoti dell’ortodossia sociale (Nancy, Alan, Penelope e Michael), si affrancano subito dal dover essere coppie felici, solide e solidali, complici e in sintonia, perbene. L’armonia del loro quartetto si scompone e si ricompone continuamente, con nuove strategie e nuove alleanze. Non arrivando però mai alla sintesi della comprensione reciproca, sia a livello individuale che di coppia. L’unisono è solo episodico e accidentale. È musica da camera, non orchestrale. E la camera sono le quattro mura domestiche dei Longstreet, dove gli specchi fanno da cassa di risonanza, riflettendo il suono senza che questo trovi una via d’uscita. Le parole sono note suonate in un continuo crescendo. Il circuito sonoro è chiuso come dalle cuffie di un ipod.

Come in un Kammerspiel di Murnau, la macchina da presa di Polański riprende questo carcere da vicino, rendendoci spettatori dentro la scena, senza esserne protagonisti. Possiamo vedere le smorfie del viso, le sfumature ironiche negli sguardi, la verità dei volti sotto le maschere. Primissimi piani, dettagli, ci rendono ricercatori con l’occhio sulla lente del microscopio. Nel vetrino c’è la violenza degli adulti. Non quella dei bambini, destinata a ricomporsi naturalmente.

È, in definitiva, l’American dream, che per Polański rappresenta l’incubo ancora attuale del carcere, per un tabù violato nel lontano 1977.

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