sabato 9 gennaio 2010

Io, loro e Lara - recensione

Si è aperta una querelle a margine dell’uscita nelle sale di Io, loro e Lara, l’ultimo film di Carlo Verdone. Sulle pagine del Corriere della Sera, Vittorio Messori, insolitamente nei panni del recensore cinematografico, ha giudicato il finale solo apparentemente lieto, ma in realtà “scettico” o addirittura “nichilista”, nella misura in cui lascia sostanzialmente i personaggi con i loro problemi e i loro vizi (in una parola, i loro peccati), con un sorriso bonario e indulgente, come di chi pensa che nulla possa cambiare. Sempre sulle pagine del Corriere, Carlo Verdone ha replicato che, invece, i suoi personaggi si ritrovano uniti a conclusione di un percorso che li ha visti inizialmente divisi; condizione questa tutt’altro che nichilista ma anzi carica di speranza.

Ognuno può farsi a riguardo la sua opinione. Certo è che il regista romano si è sentito punto nel vivo per quell’aggettivo, “nichilista”, ma non si è reso conto che, fra le righe di una recensione in apparenza assolutoria, in realtà Messori ha colto, en passant, dei difetti più sostanziali. Lo scrittore cattolico ha ravvisato infatti una “mancanza di approfondimento” teologico, ma anche “nulla di nuovo né di scavato” nella crisi di fede di don Carlo, il personaggio interpretato da Verdone. Ora, sul primo appunto, nulla quaestio: stupisce semmai che Messori si aspettasse un approfondimento teologico da una commedia, forse ingannato dall’errato paragone con Woody Allen. Riguardo invece la crisi di don Carlo, vale la pena soffermarsi. Quando il carattere di un personaggio non è ben delineato, manca di profondità, non viene ben interrogato e sviscerato prima di essere raccontato, ci si trova di fronte a un errore di scrittura. Si tratti di letteratura o di sceneggiatura, un personaggio, soprattutto se è il protagonista, per non rimanere un semplice abbozzo, uno schizzo, deve essere conosciuto dallo scrittore che lo crea sin nelle pieghe più recondite del suo carattere e della sua psicologia. Per non essere un aborto, o anche semplicemente nascere così prematuro da richiedere l’incubatrice, ha bisogno dei suoi “nove mesi” di concepimento, e di doglie: deve essere partorito nel dolore (ecco l’appunto teologico per il taccuino di Messori!).

Don Carlo non è un aborto ma un parto prematuro. Non sembra un missionario in crisi, ma Verdone con l’abito talare. Il padre dongiovanni, con parrucchino color Biscardi, che tresca con la badante moldava, il fratello cocainomane, le nipotine Emo: troppi casi umani nella stessa famiglia. Più caricature che caratteri. Nessuna traccia di un’educazione cattolica che renda plausibile una vocazione (sebbene le vie del Signore siano certamente infinite). Ciò evidenzia un difetto di scrittura, che non si può giustificare con la scusa che si tratta di una commedia. La commedia è un’arte nobile, molto difficile peraltro. Chissà perché, invece, in Italia dev’essere sempre leggera, o senza pretese, da “cinepanettone”. Forse per mascherare una mancanza di talento? No, per questo fa più rabbia. Verdone, Pieraccioni, i Vanzina, il talento ce l’avrebbero, ma troppo spesso sembrano trascurare la fatica della scrittura, che è la base di un buon film.

Io, loro e Lara, ha una trama interessante, più per quello che poteva dire che per quello che è riuscita a esprimere. Voleva essere un affresco sulla nostra disastrata società, sul suo disorientamento per la perdita dei valori, non una semplice accozzaglia di gag e battute (che pure ci sono e, qua e là, anche divertenti). Poteva esserlo, ma aveva bisogno allora di qualche primo piano della Chiatti in meno e di una riflessione maggiore; di un approfondimento delle cause, sociali e psicologiche; magari di un pizzico in più di “politicamente scorretto”. Tutti ingredienti che sarebbero sicuramente dispiaciuti a Messori, ma almeno non l’avrebbero portato a parlare di nichilismo. Tutti ingredienti di una commedia non leggera.

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