sabato 27 marzo 2010

Donne senza uomini, è ambientato in Iran nei primi anni Cinquanta. Per la precisione, nel 1953, l’anno del golpe militare ordito dalla Cia per impedire l’emancipazione del Paese dall’influenza politico-economica dell’Occidente. Tuttavia, non è un film storico. Attinge alla storia per certificare una condizione presente: la morte della libertà.

Di morte si parla nel film, dalla prima sequenza all’ultima. E l’ultima, richiamando la prima, sigilla il cerchio tombale del discorso. Una morte immaginata, certo, ma non immaginaria. Tutt’altro, reale. Tangibile. Esperibile dallo spettatore per novantacinque minuti. Una morte non passata, presente.

Munis, Zarin, Fakhiri, e Faezeh, sono quattro donne iraniane che vivono questa morte. Munis è quella che si fa carico per tutte di immaginarla e di raccontarla. Il suo racconto segue gli stilemi retorici della prosa surreale, onirica. Ma non si tratta di un sogno. Piuttosto, un incubo, declinato al passato; in quanto storico, già successo, ma che la morte iscrive nel circolo dell’eterno ritorno. Munis riesce sì a vivere la propria passione politica, liberandosi dell’educazione repressiva del fratello, ma solo nell’istante della morte. Come un cigno, la libertà canta la sua struggente canzone solo un attimo prima della fine. Zarin, giovane prostituta, vive invece la sua morte nell’anoressia, l’altra faccia dello specchio in cui è riflessa la bulimia onnivora degli uomini. Come Alice, Zarin attraversa questo specchio, ma quello che trova nel bosco non sono i fiori parlanti. Semmai quelli del ruscello preraffaellita di Ophelia, dove Zarin galleggia, ma per poco. Annegherà insieme all’amore che nessuno le ha mai saputo dare. Anche Fakhiri sa cosa significa la delusione d’amore. La sua libertà è chiusa tra parentesi: da un marito che la opprime a un amante che non la corrisponde. Faezeh, infine, sacrificherebbe la propria libertà per sposare l’uomo che ama, ma non la propria dignità in un’unione poligamica.

Quattro donne iraniane degli anni Cinquanta raccontate da una donna iraniana di oggi. Shirin Neshat, con questo primo lungometraggio continua con coerenza il suo percorso di artista. È divenuta celebre per i ritratti di donne con incise sulla pelle parole in arabo. In Donne senza uomini queste parole raccontano il dolore di un’assenza. Degli uomini, si dirà. Ma nel film gli uomini ci sono, eccome. Il punto è che non sono capaci di amare. Munis, Faezeh, Fakhiri e Zarin non sono amate, questa è la loro tragedia, che si concretizza inevitabilmente nella privazione della libertà. Perché l’amore è ontologicamente inscindibile dal riconoscimento della libertà dell’altro.

La libertà, raccontata in profondità di campo, è una strada da percorrere. Tortuosa, a tratti labirintica. In cui ci si perde, si muore, o si è costretti a percorrerla a ritroso, senza mai arrivare in fondo. La profondità di campo coinvolge lo spettatore, costringendolo come accade nella realtà a partecipare alla visione, selezionando, fra le tante cose che gli appaiono contemporaneamente all’occhio, quelle più importanti. Shirin Neshat non vuole spettatori, vuole testimoni. Con Munis in mezzo alla manifestazione di piazza, ci invita a vedere, non solo a guardare. Ad iscrivere cioè l’oggetto del racconto in un percorso conoscitivo. Quando alza il dolly fino all’ “occhio di Dio”, Neshat vuole che il pubblico sappia non più soltanto quale fosse la condizione di quelle donne iraniane degli anni Cinquanta, ma qual è la condizione delle donne iraniane d’oggi.

Da qui anche il ricorso continuo ai primi piani che, come sosteneva il critico Bela Balázs, sono la geografia di un paesaggio, in cui le cose, appunto, si danno in profondità di campo. Per il filosofo tedesco Gerg Simmel il paesaggio è una forma spirituale che vive solo in grazia dell’unificazione dell’anima. Il paesaggio delle donne di Shirin Neshat è quello della mente, in cui la loro anima, invece, si perde. Per questo è arido. Possono anche sbocciarvi dei fiori, ma poi sono troppo gracili e perciò destinati a seccarsi presto, se nessuno li vede e dà loro l’acqua di cui hanno bisogno: la libertà, che sgorga dalla fonte inesauribile dell’amore.

C’è molta morte, dunque. Ma Donne senza uomini non è un film disperato. Né tantomeno nichilista. La prosa poetica, la meravigliosa fotografia, in fin dei conti la stessa sostanza del film in quanto opera d’arte, frutto di un percorso creativo, veicolano la speranza. Lo spettatore d’essay, che andrà al cinema ben disposto a leggere una poesia, uscirà dalla sala soddisfatto e con qualche riflessione in più da fare. Lo spettatore tornato stanco dal lavoro, rischia invece di trovarlo un po’ noioso.


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