domenica 14 novembre 2010

Una vita tranquilla

Non è quello che vogliono tutti: una vita tranquilla? A parte Vasco Rossi, s’intende. Una moglie, un figlio, un lavoro che fa sentire realizzati. La stima della gente, che ti conosce, che sa chi sei. Rosario Russo non fa eccezione. Pur di trovare la tranquillità, ha lasciato il Casertano ed è emigrato in Germania. Ha aperto un albergo-ristorante, dove accoglie le persone facendole entrare nella sua intimità familiare, fatta di una moglie tedesca, efficiente e comprensiva; di un figlio, ancora bambino, che parla italiano ma ha i capelli tedeschi (biondi); di un amico “di giù”, con cui può essere se stesso.

La vita tranquilla, Rosario, l’ha trovata in un paesino sperduto della Germania, vicino a un bosco dove va a cacciare il cinghiale. Già, il cinghiale. Rosario deve entrare nella foresta, perché è lì che l’animale vive. Il cinghiale è selvatico, non si può pretendere che esca dal suo habitat naturale ed entri da solo in quel mondo piccolo-borghese che sta ai bordi del bosco. D’altronde, se, per assurdo, lo facesse, quel mondo lo sbranerebbe. Così, Rosario entra nella selva oscura armato di fucile. Lo vede, il cinghiale, tranquillo, grufolare. Rosario prende la mira, lo spara. Poi, lo porta fuori dalla foresta, nella cucina del suo ristorante. Infine, lo serve a tavola con un contorno di granchi. Piatto strano, è vero, ma accogliere i clienti significa anche andare incontro ai loro gusti: perciò, un bravo ristoratore come Rosario non si vergogna di cucinare meno pizze e più cinghiale con i granchi. Perché quelli sono tedeschi: mangiano tutto. E si bevono tutto.

Dopo l’esordio fortunato della commedia Lezioni di cioccolato, Claudio Cupellini firma la sua seconda regia scegliendo una storia nera. Nera come un tunnel senza uscita, come un vicolo malfamato di Gomorra, come la foresta in Germania. Come la vita di un uomo che sceglie di ucciderne un altro. La vita di un mafioso, di un camorrista. Il tema, già sfiorato in Lezioni di cioccolato, è quello della redenzione. Possibile o impossibile? Secondo il protagonista, impossibile. La sua battuta più importante, nella scena topica del film, quando si rivolge a un prete in stato comatoso, suona come una condanna, senz’appello: «A Dio non importa di aiutare la gente». Dice di essersi pentito delle cose fatte in passato, Rosario. Forse lo crede sinceramente. Ma non è così. La sua finta morte, inscenata per sottrarsi a una vita fino a quel punto sprecata nella malavita, si rivela presto un espediente pirandelliano. Come Mattia Pascal, anche Rosario Russo ha ingannato il suo passato per non farci i conti. Ma quei conti, con quel passato, bisogna farli. La redenzione passa per la via stretta e obbligata dell’assunzione di responsabilità: di fronte a se stessi, agli altri, a Dio. Dove sei? Dov’è tuo fratello? Invocare il perdono di Dio, che è Verità e Vita, mentendo sulla propria identità e avendo dato la morte: più facile che una gomena entri nella cruna di un ago.

Ecco, dunque, che la vita “suicidata” ritorna, e nella forma più stringente: l’amore del padre per il figlio. Non Mathias, il figlio “tedesco” del padre ristoratore, ma Diego, il figlio napoletano del padre camorrista. Abbandonandolo, Rosario aveva violato un primo tabù: la sacralità dell’amore; rifacendosi una vita, ne aveva violato un secondo: la sacralità della morte. Proprio come il Pascal di Pirandello nella lezione di Debenedetti.

Toni Servillo, interpretando Rosario Russo, ha reso magistralmente, in carne e sangue, questo personaggio mai epifanizzato, condannato a inseguire la tranquillità nell’impossibilità delle relazioni personali. Il cui dramma è non poter più amare, neanche una moglie, neanche un figlio. Neppure cambiando moglie, o cambiando figlio. La sua vita tranquilla è il suo inferno.

1 commento:

mamma ha detto...

Bene, ben tornato blog ! Il primo risultato di questo pezzo è che mi è tornata la voglia di andare al cinema per confrontarmi e riflettere, e non è poco.