Era l'anno della maturità. Era quasi due mesi dopo l'attentato al giudice Falcone: la prima volta che piansi davanti alla tv. Un pianto di rabbia, lo ricordo benissimo, non di disperazione. Per un po', troppo poco, avevo sperato che Giovanni Falcone e Francesca Morvillo fossero sopravvisuti. Li avevano portati in ospedale che erano ancora vivi, così dicevano i primi tg in edizione straordinaria. Ma, quasi subito, la speranza era stata soffocata dalla notizia della morte. Da lì la rabbia, le lacrime. Il senso d'impotenza.
Nei giorni successivi, ecco risorgere quella speranza in un nome e un cognome: Paolo Borsellino. Avevo da poco compiuto 18 anni, non sapevo chi fosse il giudice Borsellino. Lo vidi per la prima volta alla tv, in uno dei tanti servizi (li vedevo tutti, in una smania di sapere) dedicati a Falcone. Era un'intervista, una delle tante di chi conosceva il giudice ammazzato dalla mafia. Capii subito, però, che Borsellino era quello che era stato più vicino a Falcone. Era un altro lui. Per questo, trasferii la speranza su Borsellino. Per questo sentii forte l'urgenza che sentiva lui. Bisognava fare presto, diceva Borsellino, bisogna scoprire chi ha ucciso Falcone, perché non c'era tempo. Anche io sentivo che non c'era tempo. Anche io temevo che lui sarebbe stato il prossimo.Non so perché lego la notizia della morte di Borsellino al pellegrinaggio a Lourdes. Quegli erano gli anni in cui, verso fine giugno, primi di luglio, era per me immancabile l'appuntamento con il pellegrinaggio. La preoccupazione per la maturità non raggiungeva quella di vedermi fissare l'orale troppo tardi, ed essere costretto a rinunciare al pellegrinaggio. Non ero un beghino: a Lourdes andavano molti miei amici, e si faceva un'esperienza di vita fortissima, molto dura ma anche molto divertente. Perché associo la notizia della morte di Borsellino a Lourdes? Perché ho il vago ricordo dello sbarco a Porto Torres, al rientro dal pellegrinaggio, e di qualcuno che ci riferiva la notizia: hanno ammazzato Borsellino. Ma forse mi confondo. La notizia che mi era stata data sulla banchina era il mio voto di maturità: 57/60.
Oggi hanno fatto rivedere in tv (lo fanno sempre) la dichiarazione a caldo di Antonino Caponnetto: "È finito tutto...non mi faccia dire altro". Di nuovo: la morte della speranza. Ma a diciotto
anni la speranza non può morire, e, appunto, se si piange si piange di rabbia, non di disperazione. Mi iscrissi a giurisprudenza, come metà della mia classe. Qualche anno più tardi, ho scoperto di essere così rientrato in un fenomeno studiato dai sociologi: le iscrizioni a giurisprudenza nel 1992-93 subirono un'impennata notevole, sull'onda dell'emozione per le stragi di Capaci e di via D'Amelio. Dunque, anche io andai a giurisprudenza, con la convinzione di diventare un magistrato, di combattere per la legalità. Per seguire il mio compagno di banco del liceo, nonché migliore amico, mi iscrissi a Firenze. Per questo, ebbi modo di incontrare Antonino Caponnetto. Venne in via Laura, dove c'era allora la sede della facoltà, nell'aula 6, quella grande dove si svolgevano le lezioni del primo anno. Già per il secondo anno bastavano aule più piccole: la scrematura degli iscritti a legge era molto precoce. Venne a parlare agli studenti, e per prima cosa ci chiese scusa per quelle parole disperate: "È finito tutto". No, non era finito tutto. Lo disse a noi che dovevamo raccogliere il testimone. Lo diceva a se stesso e, per convincersi, faceva il giro delle scuole e delle università, per rimangiarsi l'amarezza e distribuire la speranza, quella che fece dire a Falcone che la mafia è un fenomeno umano e come tale destinato a finire. Dopo quell'incontro, andai in libreria e comprai "I miei giorni a Palermo", in cui Caponnetto racconta di come alla soglia della pensione, decise di andare a sostituire un altro morto ammazzato: Rocco Chinnici. Di Caponnetto ricordo la voce fioca, come quella di Mario Luzi, e la stessa incisività, seppure declinata nella chiarezza, non nell'ermetismo. Ricordo anche il funerale, di Antonino Caponnetto. La chiesa in piazza Santissima Annunziata era piena. Io stavo in piedi, in fondo. Riconobbi le autorità. Mi colpì la presenza di Marco Travaglio e di Daniele Luttazzi. Fra i concelebranti c'era anche Don Andrea Bigalli, all'epoca nostro assistente spirituale alla Fuci. Sono sicuro che a un certo punto mi vide dall'altare. Probabilmente si chiese "Che cavolo ci fa?". Ma non potevo mancare.Ogni volta che guardo l'intervista a Caponnetto, che risento le sue parole "È tutto finito", ripenso a tutte queste cose. Mi rivedo studentello di giurisprudenza, con tutti gli ideali al loro posto. E mi commuovo. Non so se per lui, per Borsellino, per Falcone...o per me.
Oggi pomeriggio ho rivisto anche l'intervista di Enzo Biagi a Luciano Liggio. Anche in questo caso, la tv non manca mai di mostrare la foto del Boss che aveva per autista nientemeno che Totò Riina, quella in cui sorride con il sigaro in bocca. Un ghigno male
