martedì 15 luglio 2008


È un film che ha fatto molto discutere, né poteva essere altrimenti, visto che ha per protagonista una persona ancora vivente e molto conosciuta; e questa persona è per di più un politico, anzi il politico, che ha attraversato tutte le fasi della storia della repubblica italiana, dalla sua nascita ad oggi: Giulio Andreotti. Paolo Sorrentino, il regista de Il Divo, ha giustificato la sua scelta facendo leva proprio su questa longevità politica che consente, parlando di Andreotti, di parlare di tutta la storia d’Italia, dal secondo dopoguerra ai giorni nostri. In più, ad affascinare Sorrentino è stata la personalità sfuggente, ambigua, del sette volte Presidente del Consiglio; una personalità che non si fa catalogare facilmente dietro etichette più o meno preconcette, e che è destinata a suscitare forte simpatia o forte antipatia, ma mai indifferenza, neanche nei più acerrimi detrattori, che manifestando il proprio astio dimostrano di subirne il fascino. Il fascino del potere…che, nel più celebre degli aforismi andreottiani, “logora chi non ce l’ha”.
E proprio qui sta il punto, che in pochi sembrano avere colto. Seguendo acriticamente il giudizio a caldo del diretto interessato, si è dato per acquisito che il film fosse “una mascalzonata”, salvo poi dividersi tra chi l’ha biasimata e chi invece se n’è rallegrato. Tutti, insomma, ne hanno dato una lettura politica, per di più applicando lo schema della dicotomia o frattura insanabile tra destra e sinistra. Che cosa è la destra e che cosa la sinistra? - si chiedeva ironicamente Giorgio Gaber in una delle sue tante belle canzoni. In pochi lo sanno (forse solo quelli che hanno letto Bobbio), ma tutti sono pronti a schierarsi, fin dai tempi dei guelfi e ghibellini, o magari anche da prima (patrizi e plebei, Sparta e Atene?...).
Ma il film di Sorrentino ha un’altra ambizione e lo rivela sin dal titolo, molto significativo: Il Divo. Se si scorre la filmografia del regista napoletano, si può notare come il suo interesse ricorrente, che permane anche nel racconto di storie molto diverse tra loro, è quello di descrivere la mediocrità e la meschinità dell’uomo. In tutti i film precedenti il personaggio principale, o uno dei personaggi principali, ha sempre uno di questi tratti come aspetto dominante del proprio carattere, qualunque sia la propria estrazione sociale. Può essere un borghese colto, sensibile e introverso come Titta Di Girolamo de Le conseguenze dell’amore (Toni Servillo, 2004), riciclatore di denaro sporco per conto della mafia; oppure può essere uno spregevole usuraio semi-analfabeta, come Geremia de’ Geremei ne L’amico di famiglia (Giacomo Rizzo, 2006). Se poi la mediocrità o la meschinità si accostano a personaggi che hanno una es-posizione sociale, esse cambiano di segno per assumere i contorni della debolezza umana, della piccolezza dell’uomo, anche di quello che tutti considerano “un grande”. L’effetto che ne consegue è quello della “smitizzazione” del personaggio, che dietro la maschera scintillante del successo mostra quella tragica del fallimento. Così è ad esempio per Tony (Toni Servillo) e Antonio Pisapia (Andrea Renzi), i protagonisti del primo film di Sorrentino, L’uomo in più. Rispettivamente un cantante cocainomane e un ex calciatore, vagamente ispirati a Franco Califano e Agostino Di Bartolomei.
E così è anche, e in misura ancora maggiore, per Il Divo. Sorrentino non è interessato a dare un giudizio politico sulla Democrazia cristiana o ad avvalorare i sospetti di collusione mafiosa di Andreotti. Sorrentino vuole demistificare. Smitizzare il “Divo”. Umanizzarlo, se si vuole. Riportare il “dio” Giulio in terra. Non è la denuncia sociale, l’accostamento di Andreotti ai principali misteri della storia d’Italia, il filo conduttore del film. Questo accostamento, pur presente perfino nel famoso bacio con Totò Riina, è iscritto in una chiave talmente grottesca, così volutamente palesata, da far perdere all’intreccio la sua carica di polemica politica. Ciò vale ancor di più per il personaggio secondario, ma fondamentale come “richiamo” dello stesso concetto, di Cirino Pomicino. Interpretato dall’esilarante Carlo Buccirosso, Pomicino è descritto né più né meno come una “macchietta”.
Dunque, chi ha voluto racchiudere Il Divo in una cornice interpretativa di stampo politico, non ha colto il cuore del film, che invece si inserisce perfettamente nelle precedenti opere di Sorrentino, costituendone un ulteriore capitolo. Inoltre, una chiave interpretativa sbagliata rischia di mettere in secondo piano gli aspetti formali della pellicola, che confermano il talento di Sorrentino, capace di trovare soluzioni di regia nuove, di creare immagini che si stampano in maniera indelebile nella memoria dello spettatore: come l’incipit formidabile del “Divo” afflitto da una terribile emicrania e trafitto dai minuscoli aghi dell’agopuntura, o la memorabile scena dei coniugi Andreotti seduti sul divano a guardare in tv Renato Zero che canta I migliori anni della nostra vita. In entrambi i casi, significativamente, il protagonista è un uomo qualunque. L’Andreotti di Sorrentino è in fin dei conti un uomo mediocre, non all’altezza della sua fama, sopravvalutato perfino nell’intelligenza delle sue battute (che infatti non irretiscono chi lo conosce bene, la moglie). Di questo avrebbe dovuto dolersi il vero Giulio Andreotti: del reato di “lesa maestà”.


1 commento:

Anonimo ha detto...

Famosa frase de Giulio Andreotti referida a España: "La Spagna ?....Manca Finezza...!!!"