mercoledì 9 dicembre 2009

A Christmas Carol - recensione


Chissà se Charles Dickens nel 1843, quando pubblicò il primo dei suoi Racconti di Natale, A Christmas Carol, immaginò che il suo canto avrebbe partecipato dell’essenza del Natale, che non è il ricordo di una nascita, ma il miracolo continuamente rinnovato nelle vite degli uomini di una rinascita.

Chissà se, tratteggiando con l’inchiostro un vecchio avaro e battezzandolo Scrooge, s’immaginò che quel nome, di un personaggio “solitario come un’ostrica”, sarebbe entrato nei vocabolari d’inglese, in compagnia di milioni di altre parole, come sinonimo di taccagno, al pari di Arpagone.

Certamente Dickens, quando descrisse un naso aguzzo, mai si sarebbe immaginato che un secolo dopo, nel 1947, quel naso si sarebbe trasformato in un vero e proprio becco nei disegni di un certo Carl Barks, e che il suo Ebenezer Scrooge, avrebbe indossato le ghette e sarebbe diventato un papero: Uncle Scrooge McDuck. Zio Paperone.

Se poi qualcuno, venuto dal futuro, magari lo spirito del Natale Avvenire, gli avesse detto che un giorno il suo personaggio non solo si sarebbe potuto leggere o vedere disegnato, ma sarebbe andato oltre la forma bidimensionale, rappresentato attraverso immagini in movimento tridimensionali, Charles Dickens sarebbe probabilmente trasecolato. O forse no, chissà.

Di sicuro, quello che lo scrittore inglese paventava, più di vent’anni prima del Capitale, era il risvolto egoistico e spietato del capitalismo nascente: l’egoistica ricerca del massimo profitto, a scapito di tutto, compreso lo sfruttamento del lavoro minorile, che lui stesso aveva sperimentato sulla propria pelle in una fabbrica di lucido da scarpe. Questo pericolo Dickens se lo immaginava eccome, e se qualcuno gli avesse detto che un secolo e mezzo dopo quel 1843, il venti percento della popolazione mondiale avrebbe sfruttato l’ottanta percento delle risorse del pianeta, o che ogni cinque secondi un bambino sarebbe morto di fame, forse non si sarebbe meravigliato. Forse avrebbe detto: “è esattamente quello da cui volevo mettere in guardia quando ho scritto l’episodio di Scrooge che fa visita alla sua tomba”.

Ma A Christmas Carol è una favola di Natale. Per questo inizia con una morte e finisce non con una nuova vita ma con una vita nuova. Quella di Scrooge, che si era progressivamente chiuso in se stesso, escludendo tutti gli affetti, a partire dalla fidanzata, che pure un tempo amava; che, dominato dalla passione del guadagno, si era reso incapace di amare, e condannato alla solitudine; finché, presa coscienza della sua condizione e delle responsabilità di fronte alla vita, s’impegna a diventare un altro uomo, proteso al bene verso il prossimo.

E che cos’è questa se non l’essenza del Natale? Il Verbo che si incarna sceglie la relazione con gli uomini, nella dimensione dell’amore, del dono di sé agli altri.

Chissà cosa ci accadrebbe se capitasse anche a noi l’opportunità di vedere dall’alto il nostro passato, presente e futuro. Forse anche noi sentiremmo l’esigenza di cambiare qualcosa nella nostra vita, di rinascere. Leggere A Christmas Carol o andarlo a vedere al cinema, dà questa opportunità, perché fa riflettere. Ma il bello è che il Natale arriva anche per chi non legge o non sta davanti al grande schermo.


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