venerdì 25 settembre 2009

Il grande sogno - recensione


Cos’è un sogno? È una realtà parallela, in cui tutto è creduto possibile. In cui il desiderio inconfessabile si realizza e corre libero, vestito solo di una maschera in volto. Chi sogna? Verrebbe da dire: tutti! Ma, a ben vedere, sogna chi ha desideri, o almeno così cantava Cenerentola. Per chi invece anche i desideri sono un lusso, non resta che l’incubo: realtà non parallela, ma concreta, delle anime morte a stento nel 1968, salve nel 1996. Un sonno, il loro, senza sogni, ma per questo più leggero e sottile di una gomena. Vite, se così si possono chiamare, appese a un filo; quel filo che realizzerà la promessa escatologica, centrando la cruna dell’ago.

Chi erano i sognatori, the dreamers, nel Sessantotto? Quelli che avevano desideri. Quali desideri? Questo è il punto! Per esempio, il desiderio di andare al cinema. Ma andare al cinema nel Sessantotto era un atto politico. Come anche impedire di andarci. Si pensi a Godard che capeggia il tentativo di bloccare il festival di Cannes, e con Truffaut riesce ad impedire una proiezione, incitando ad unirsi alla rivolta delle università e delle fabbriche. Fare un film nel Sessantotto, soprattutto in Francia, ma prim’ancora in Cecoslovacchia, durante la breve primavera, o nella Germania di Brecht, significava sperimentare nuovi linguaggi, che fossero sovversivi rispetto ai codici tradizionali. Il Verfremsdungeffekt, l’effetto di straniamento, ottenuto con alcuni espedienti tecnici, come il collage, lo sguardo in macchina, il montaggio discontinuo, la recitazione stilizzata, le scritte sovrapposte all’immagine, ha come unico scopo impedire allo spettatore l’identificazione passiva con la storia, con le vicende che coinvolgono i personaggi sullo schermo, per stimolare invece la riflessione. Politica, naturalmente.

Il Sessantotto non è stata una rivoluzione politica, perché non era quello l’obbiettivo. C’è stato un momento, a Parigi, quando De Gaulle sparì, in realtà andando in Germania per assicurarsi la fedeltà delle truppe di Massú, che gli studenti e gli operai avrebbero potuto prendere il potere. Non lo fecero. Prevalse lo spettro della dittatura comunista. O forse la comodità della democrazia rappresentativa rispetto alla fatica della democrazia diretta. Restando nella metafora del sogno, e all’interpretazione che ne ha dato Freud, la rivoluzione del proletariato era il contenuto manifesto che censurava un contenuto latente, più confuso e meno ambizioso: cambiare i costumi. Questo è quello che il Sessantotto è riuscito a fare, probabilmente perché è quello che voleva veramente.

Tutti gli altri obiettivi li ha falliti. O, per l’eterogenesi dei fini, ne ha conquistato la parodia. L’alternativa alla famiglia tradizionale non è stata la comune, ma la famiglia allargata, nel caso migliore, il familismo in quello peggiore. Proprio le comuni sono finite principalmente per l’incapacità di sconfiggere gli istinti naturali della gelosia o della maternità. Il capitalismo è ancora l’impronta dominante della società, la sua unica dimensione, con buona pace di Marcuse. La provocazione di “coloro che non vogliono fare carriera” ha lasciato il posto alla rassegnazione di “coloro che non possono fare carriera”. E mentre il femminismo si rifà il look con il silicone o il botulino, il dibattito è ormai una chiacchiera sul nulla dei talk show. La solidarietà tra le classi o il suo opposto, il conflitto sociale, siedono comode nella propria poltrona dell’autoreferenzialità. Dell’anarchia defenestrata (qui poco importa se per induzione), è rimasto solo il disprezzo per le regole, senza più poesia, senza più l’amore, che non sia amore per se stessi. La liberazione sessuale è finita in manette, quelle fetish, nel carcere della mercificazione. La democrazia diretta si esprime soprattutto nell’astensionismo.

Non era questo che sognavano i dreamers del Sessantotto. Quello che sognavano ce lo dice il film di Bertolucci del 2003. Non ce lo dice invece il film di Michele Placido, indeciso se raccontare il Sessantotto (contenuto manifesto) o se stesso, quando faceva il poliziotto e il suo Grande Sogno era diventare attore, e nient’altro (contenuto latente). Davanti agli occhi stralunati di Nicola (Riccardo Scamarcio), c’è in modo maldestro la poesia di Pasolini sulla battaglia di Valle Giulia, ma dietro, dentro, quello sguardo c’è solo l’incomprensione di un desiderio collettivo che non è il proprio. Quello che sogna Nicola è quello che sognava Placido. Quello che non interessa a Nicola è quello che non interessa a Placido: cioè, se Libero (Luca Argentero) è diventato terrorista, o se Laura (Jasmine Trinca) ha perduto la verginità. Non gli interessa, e si vede. Così come al regista non importa granché che il suo film sia distribuito dalla Medusa. Che doveva fare? Si è dovuto adeguare ai tempi, come il suo personaggio Nicola. Gli altri, quelli che hanno fatto il Sessantotto, invece, sognavano proprio il contrario, di non adeguarsi.



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