venerdì 15 febbraio 2008

Partite truccate

Firenze. Alle cinque del pomeriggio, in un normale giorno feriale, un centinaio di persone si ritrovano accalcate nella sala grande della libreria Feltrinelli, in via de' Cerretani. Non stanno aspettando una rockstar, ma Marco Travaglio. Anche a me è arrivato un sms: C'è Travaglio alla Feltrinelli, e ho mollato i libri e sono andato a sentire. In realtà c'è anche Peter Gomez, ma non importa a nessuno, o almeno così pare. La signora che lo presenta lo chiama Peter e non Piter, come dovrebbe pronunciarsi il suo nome; e quando annuncia che dovrà andare via prima per un impegno, qualcuno accanto a me commenta: Allora poteva anche non venire, così sentivamo direttamente Travaglio. I due giornalisti presentano il loro ultimo libro sulle magagne italiane. Anzi, no. Gomez presenta il libro: attacca a parlare per primo, diretto, conciso, elencando gli argomenti caldi delle 900 pagine e passa del loro lavoro. Bustarelle, bustine, cartoni di latte (Parmalat)... Trentacinque minuti e una media di uno scandalo al minuto. Finisce, e il microfono passa a Travaglio. Brusio di attesa repressa. Là dove Gomez era piegato in avanti, ad aggredire il microfono, Travaglio è stravaccato, parla più lentamente del collega, usa sapientemente le pause, è ironico, dice la parolaccia e la battuta che strappa l'applauso... Parla della puntata di Anno Zero della sera prima, di Mastella, di Cuffaro... All'uscita dalla libreria, parlando con gli amici, mi viene da commentare non tanto il contenuto delle sue parole (sono d'accordo con lui su quasi tutto, ma lo sapevo già prima di venire), quanto sulle diverse tecniche di comunicazione: Non vi sembra che solo Gomez ha presentato il libro, mentre Travaglio ha fatto altro? Non ha forse fatto... un comizio? Ecco che, pur essendo d'accordo con lui, non posso fare a meno di notare come la popolarità lo stia trasformando in qualcos'altro. Una cosa simile mi sembra sia accaduta a Grillo. C'è qualcosa in Italia che trasforma i comici, i giornalisti...in politici? Aiuto!!



A parte gli scherzi, Grillo e Travaglio facciano icché vogliono, e se c'è un vuoto in politica da riempire, che lo riempia chi vuole. Siamo in democrazia. Ma ecco che mi è venuta una riflessione.
Quando ho aperto questo blog e mi sono arrivati tanti commenti, tutti così belli e lusinghieri, mi sono subito montato la testa. Ho ceduto alla tentazione di pubblicare un post tipo questo, in cui filosofeggio, dicendo la mia su un argomento qualsiasi, tra quelli di mio interesse, ovviamente. In altre parole di "grillizzare" il blog, anziché usarlo per le recensioni.
Potrei parlare di qualsiasi cosa: dagli "aiutini" all'inter, al confronto tra il "prossimo" di Sofri e quello di Ratzinger. In effetti è elettrizzante manifestare le proprie idee e vedere che hanno un riscontro positivo nelle altre persone. Però mi sono subito spaventato, perché ne ho percepito il pericolo. Da quando insegno ai bambini delle scuole medie, se c'è una cosa che ho imparato è quanto sia sottile il confine tra formare le coscienze e manipolarle. Quando in terza spiego certi argomenti, i problemi dell'ambiente, della fame nel mondo, della guerra, mi sento in dovere di far sviluppare ai bambini una coscienza civica, di farli ragionare, di fare in modo che possano farsi un'idea loro sulla base dei dati oggettivi. Eppure percepisco anche quanto sia facile portarli dalla mia parte, convincerli, fargli vedere le cose come le vedo io. La cosa, lo confesso, mi terrorizza. Se lo facessi, anziché uomini liberi, formerei uomini schiavi. Da adulti non avrebbero i mezzi per difendersi dal plagio mentale di chi ha una personalità più forte della loro. E se qualcuno sta pensando che un adulto non si fa plagiare facilmente, lo invito a venire con me in classe la prossima settimana, per aiutarmi a spiegare il nazismo...
Ma ora basta con i comizi! Sarebbe tempo che si parlasse di cinema su questo blog! Dovrei postare la recensione sull'ultimo film di Woody Allen. È già pronta, ma prima voglio aspettare che me la pubblichino sul giornale. Allora, per rinfrescarvi la memoria, pubblico quella che ho scritto due anni fa su Match Point, che è opportuno rivedere prima di Sogni e delitti. Buona lettura!


MATCH POINT
Chris Wilton, giovane tennista irlandese, dopo aver abbandonato l’agonismo, si trasferisce a Londra. Inizialmente si mantiene facendo lezioni di tennis in un circolo molto esclusivo. Qui fa amicizia con Tom Hewett (Matthew Goode), suo allievo e rampollo dell’alta società londinese. Quando Chris sposa Chloe (Emily Mortimer), sorella di Tom, e ottiene dal suocero un posto di prestigio nell’alta finanza, sembra che nessuno possa più frenare la sua scalata sociale. Solo lui può rovinare tutto. Come? Per esempio innamorandosi di Nola Rice (Scarlett Johansson), sensuale attricetta americana, fidanzata (poi ex) di Tom.
«Chi disse preferisco avere fortuna che talento, percepì l’essenza della vita. La gente ha paura di ammettere quanto conti la fortuna nella vita. Terrorizza pensare che sia così fuori controllo. A volte in una partita la palla colpisce il nastro, e per un attimo può andare oltre o tornare indietro. Con un po’ di fortuna va oltre, e allora si vince. Oppure no, e allora si perde». Non è l’inizio di un romanzo ma il prologo dell’ultimo film di Woody Allen, Match Point. Nella patria del torneo di Wimbledon, il regista newyorkese mette in scena la partita della vita, facendo leva sulla valenza simbolica della pallina che colpisce il nastro e, per un lunghissimo istante, rimane indecisa se cadere al di là oppure al di qua. Per Allen è la metafora del fattore “caso” nella vita degli uomini. L’esplicito riferimento dell’intertesto a Dostoevskij ha indotto la critica a parlare, parafrasando il titolo del famoso romanzo, di “delitto senza castigo”. Il tema non è nuovo per Woody Allen, che nel libro-intervista di Stig Björkman, Io, Woody e Allen. Un regista si racconta, descrivendo il protagonista di Crimini e misfatti, spiegava così la sua personale visione del mondo: «Noi viviamo in un mondo in cui non c’è nessuno a punirti, se non ti punisci da solo. Judah è una persona che quando deve, fa ciò che gli conviene. E la fa franca! E dopo, probabilmente, conduce una vita meravigliosa. Se non sceglie di punirsi, allora se l’è cavata. È proprio come la conversazione durante la cena in casa dei genitori di Judah, quando si parla dei nazisti. Noi abbiamo avuto la fortuna di vincere la guerra. Ma se non l’avessimo vinta, la storia sarebbe stata scritta in maniera diversa». A distanza di sedici anni (Crimini e misfatti è del 1989), Allen non ha cambiato opinione. Anzi, sembra che col tempo il suo pessimismo si sia radicalizzato. Per fare un solo esempio, in Crimini e misfatti viene dato spazio anche alla fede “cieca” del rabbino Ben, mentre in Match Point manca un contradditorio alla filosofia nichilista, o forse, più precisamente, “caospolitica” del protagonista, che ricalca quella del regista. Sono illuminanti le parole spese da Allen, sempre nell’intervista resa a Stig Björkman: «Ci creiamo un mondo falso, e ci viviamo dentro […] ci creiamo un mondo che in effetti non significa nulla. È privo di significato. Ma è importante che noi ce lo creiamo, un qualche significato, dal momento che un significato oggettivo, percettibile, non esiste per nessuno». Si confrontino queste parole con quelle del protagonista del film: «Sarebbe appropriato se io venissi preso e punito. Almeno ci sarebbe un qualche piccolo segno di giustizia. Una qualche piccola quantità di speranza di un possibile significato».
In una lettera a M. Katkov del settembre 1865, citata da Cesare G. De Michelis nella sua introduzione a Delitto e castigo, Dostoevskij afferma: «La pena giuridica comminata per un delitto spaventa il delinquente assai meno di quanto pensino i legislatori, perché è lui stesso che moralmente la vuole». Dunque, secondo De Michelis, «la società commina una “pena” che il reo accoglie come “castigo”, dando luogo a una sorta di rapporto chiasmatico col parallelo tra “giustizia Divina e legge terrena”». Anche Raskòl’nikov era convinto che la ragione stesse dalla parte dei vincitori: «“La mia coscienza è tranquilla. Certo, è stato commesso un delitto penale; certo, la lettera della legge è stata violata ed è stato versato del sangue, allora, prendete la mia testa per la legge interpretata alla lettera…e fatela finita! Certo, in questo caso però anche molti benefattori dell’umanità che non hanno avuto il potere in eredità, e che anzi se lo sono preso, avrebbero dovuto venire giustiziati ai loro primi passi. Ma quelli hanno retto i loro passi, e pertanto loro hanno ragione, mentre io no e dunque non avevo il diritto di permettermi quel passo.” Ecco l’unica cosa in cui ammetteva che consistesse il suo delitto: solo nel fatto di non aver retto e di essersi costituito». Ma poi Raskòl’nikov si converte ed è “risuscitato” dall’amore. Chris Wilton non si converte, è ateo e tale rimane; razionalizza il suo senso di colpa fino a farlo acquietare del tutto. In lui il rapporto chiasmatico tra giustizia terrena e giustizia divina si realizza in negativo, nel sussumere dall’assenza della prima l’assenza anche della seconda. Ma la giustizia che Chris considera è soltanto quella retributiva; così il Dio che nega, o che, per restare nella metafora sportiva, sconfigge, non è il Dio cristiano di Raskòl’nikov (Woody Allen ha dichiarato di riferirsi sempre e solo alla religione ebraica, perché è l’unica che conosce), ma piuttosto il Dio veterotestamentario degli amici di Giobbe, che giudica con un criterio meramente retributivo, e non secondo misericordia.
Interrogato da Björkman sulla sua fede, Woody Allen ha risposto: «Ritengo che nella migliore delle ipotesi l’universo sia indifferente. Nella migliore delle ipotesi! Hannah Arendt ha parlato della banalità del male. Anche l’universo è banale. E poiché è banale, è malvagio. Non è diabolicamente malvagio. È malvagio nella sua banalità. La sua indifferenza è malvagia. […] Per me l’indifferenza equivale alla malvagità».

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