giovedì 21 febbraio 2008

Sogni e delitti

Per vivere al di sopra delle proprie possibilità, per mantenere un tenore di vita alto, superiore a quello degli altri, se non si è disposti a negoziarlo, bisogna essere pronti anche ad uccidere. Per essere disposti ad uccidere, non bisogna mai porsi la domanda: «E se Dio esistesse?». Chi si pone questa domanda, magari racchiudendola in una cornice ovale con la Creazione di Adamo del Giudizio Universale di Michelangelo e mettendola sul comodino della camera da letto, è perduto. Già il solo porsi la domanda implica una messa in discussione della propria esistenza, della propria condotta, del proprio passato. Ma chi vuole vivere meglio degli altri, cavalcare la tigre del lusso, non può guardare al passato, perché nel passato c’è sempre qualcosa che bisogna dimenticare, che nessuno deve sapere. Ci sono le proprie responsabilità. Perciò, bisogna guardare sempre avanti, al futuro; e il futuro è un eterno presente: «Adesso è sempre adesso». Per avere successo nella vita, per vivere la vita dei sogni, non bisogna mai confessare, nemmeno a se stessi, i propri delitti, né chiedere perdono. Perché non c’è nessuno a cui chiedere perdono. Non c’è nessun Dio, nessun Grande Inquisitore, ma solo il caso, o meglio, la fortuna. La fortuna che ti mette in mano una scala reale di cuori, e subito dopo una coppia di donne. Ma, come si dice, la fortuna è cieca, non vede quello che fa, perciò è irresponsabile, nel senso di esente da responsabilità. Come disse la Natura leopardiana all’Islandese: «Quando io vi offendo in qualunque modo e con qual si sia mezzo, io non me n’avveggo, se non rarissime volte: come, ordinariamente, se io vi diletto o vi benefico, io non lo so; e non ho fatto, come credete voi, quelle tali cose, o non fo quelle tali azioni, per dilettarvi o giovarvi.»
Nell’altra vita, non ci sono delitti, ma neanche sogni. Nell’altra vita si lavora al ristorante dalla mattina alla sera, tutti i giorni, per mesi, per anni. Si mangia il pane del sudore del proprio volto. È una vita in cui ci sono dei limiti, delle regole, delle responsabilità. In una parola: c’è l’etica; e, in un’altra, la famiglia, che ugualmente pone dei vincoli morali: i vincoli di sangue. Di là, nel mondo degli affari, del business, delle barche e delle macchine sportive, anche il vincolo di sangue obbliga fino a un certo punto. Vale di più la famiglia o il proprio tenore di vita? Nel mondo dei sogni (in realtà forieri di sventure, come le profezie di Cassandra) e dei delitti, vale di più il secondo. Allora la famiglia, se c’è, è quella tragica di Giasone, che prima conquista il vello d’oro, poi è disposto a ripudiare la moglie davanti al trono di Creonte; e di Medea, che sacrifica i figli sull’altare della vendetta.
L’ultimo film di Woody Allen, Cassandra’s dream (Sogni e delitti, nella versione italiana), chiude una doppia trilogia: quella geograficamente “londinese”, trattandosi del terzo e ultimo film girato a Londra, dopo Match Point e Scoop; e quella tematicamente “dostoevskijana” del delitto e castigo, inaugurata nel 1989 con uno dei suoi film migliori, Crimini e misfatti, e “bissata” nel 2005 da Match Point. Rispetto a questi ultimi, Sogni e delitti è certamente inferiore. Tuttavia possiede delle peculiarità che non autorizzano a parlare di film già visto o di ripetitività del regista newyorkese. Prendendo in prestito gli strumenti critici di Michael Bachtin, Match Point è omofonico, laddove Crimini e misfatti è polifonico. Sogni e delitti rimane invece a metà strada, limitando la “polifonia” a tre personaggi principali, che incarnano però, a ben vedere, visioni della vita non abbastanza divergenti per essere considerate diverse, se non per sfumature. Che poi Allen affidi a Terry (il personaggio interpretato da Colin Farrell) l’atteggiamento psicologico più vicino al suo, quello di chi ancora qualche scrupolo di coscienza se lo pone, è confermato dalle ripetute dichiarazioni del regista, che, per altro, non perde occasione per ribadire la sua meraviglia ogni qualvolta un suo film ha successo, come se si trattasse meramente di un caso, di uno scherzo del destino, di una mano fortunata a poker. Risalire da ciò all’aspetto nevrotico che vi è sotteso (nevrosi del personaggio e dell’autore), è un attimo, ma pertiene più al registro del saggio che a quello della recensione. Inoltre, la tentazione di compiere tale lettura psicoanalitica è troppo forte e troppo scopertamente tesa a indirizzare il discorso critico verso il saggio di Freud del 1927, Dostoevskij e il parricidio, per non far sorgere il dubbio che sia una “trappola” ordita dall’astuto e ossessivamente nevrotico regista. Per non caderci, allora, sarà sufficiente accennare alle considerazioni freudiane sul Fato come tarda proiezione paterna, o sul gioco d’azzardo come modo del nevrotico di crearsi un sostituto palpabile del senso di colpa edipico, attraverso l’accumulazione del debito; in altre parole, come modo per punirsi. Sogni e delitti, dunque, è più dalle parti dei Fratelli Karamazov che di Delitto e castigo, non solo per la tematica “familiare” dell’intreccio, ma per la continuità della diegesi, che Allen rende il più possibile asciutta ed essenziale, senza stacchi repentini di montaggio.



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