venerdì 19 dicembre 2008

Il miracolo del Presepe

Oggi nella nostra scuola è l'ultimo giorno prima delle vacanze. Si celebra la messa di Natale nel salone del refettorio. Quando arrivo, insieme al professore di matematica, la messa è appena iniziata. Gli altri ci sono tutti: la suor Preside accanto all'altare, i colleghi in piedi ai lati con la schiena appoggiata al muro, gli alunni e dietro i genitori nelle due colonne di sedie. Dietro l'altare, nel proscenio del teatrino dove si fanno le prove dello spettacolo di fine anno c'è una rappresentanza di studenti che è stata scelta per ricoprire il ruolo importantissimo del coro. Su tre file: nella prima, tre chitarre classiche e una elettrica; nella seconda, il primo gruppo di coriste e flautiste con l'aggiunta della violinista e voce solista; nella terza, le altre coriste e coristi (se ricordo bene un solo maschietto), con la presenza vigile dell'insegnante d'inglese. Questi ultimi, forse perché stanno più in alto, verranno più tardi definiti dall'insegnante d'italiano, non senza una certa qual ironia, "gli arcangeli". In basso a destra, di fianco all'altare, l'insegnante di musica alla tastiera è affiancata da un alunno batterista e suonatore del triangolo (utilissimo per l'Alleluia e il Tu scendi dalle stelle).

Dicevo, il prof. di matematica ed io siamo i ritardatari. Colgo lo sguardo di rimprovero della suor Preside, che con un gesto perentorio chiama a sé il collega in prima fila. Io me la scampo e mi siedo nell'ultima. Non mi piace mettermi davanti. Sarà un antico retaggio della paura che mi prendeva da bambino di essere coinvolto nelle letture, o forse la consapevolezza dei miei peccati. In ogni caso preferisco sempre sedermi nelle retrovie. Quello mi sembra il mio posto, e comunque è quello che preferisco, anche perché mi consente di avere una visione panoramica dei fedeli e, come dire?, mi fa percepire meglio l'aspetto collettivo del rito.

Forse è solo che mi piace osservare. Così, mentre la messa va avanti, io guardo e colgo intorno a me una realtà completamente diversa da quella che mi s'imprime nella rètina. I miei studenti non sono più i miei studenti. Non sono più le ienette che urlano, strillano, rompono, non studiano, fanno battute sceme, dicono le parolacce, bestemmiano addirittura. Sono lì, buoni buoni, che stanno seduti composti, stanno zitti e rispondono solo quando devono farlo per seguire il rito della messa, cantano, suonano, sono contenti di farlo davanti ai propri genitori, nonni, insegnanti. Cantano e suonano bene. Ecco allora che scorgo quello che mi fa dannare, che è invece un angioletto; quello che non capisce un tubo, che fa un accordo col barré; quello che è sempre triste, perché la mamma lo lascia sempre solo e il papà è andato via, ma che oggi sorride e canta con i compagni; quella che ride sempre come una sciocchina e che ora legge le letture serissima e composta... Mi chiedo come mai non percepisco l'ipocrisia, la falsità di questi atteggiamenti. Non le percepisco perché non ci sono. Non le percepisco perché i miei studenti non sono più i miei studenti. Le ienette non sono più ienette. Sono bambini, semplicemente bambini.

Anche i genitori non sono più i genitori. C'è quella che ha un figlio che fa disperare tutti e non sa come fare; quella che si sta separando; quella che è una rompiscatole, ma ora è lì che si passa un fazzolettino sugli occhi umidi, commossa dal figlio che canta nel coro; quello che è un padre severo, ma ora sta tutto contento a fare riprese col telefonino. I genitori non sono più i genitori, sono padri e madri.

I miei colleghi, appoggiati al muro, non sono più "quella d'inglese, scienze, musica..." ecc. Sono una mamma che si è portata la piccola appesa al marsupio; una ragazza, un ragazzo, che lavorano per un tozzo di pane. La suor Preside non è la suor Preside ma una nonna che ci fa da chioccia.

Al Padre nostro, sento forte la pregnanza di quell'aggettivo, "nostro". Non siamo più alunni+genitori+corpo docente. Siamo noi. Alla comunione, percepisco la presenza di una comunità. C'è solo questo. Tutto il resto, i problemi, i rapporti non sempre idilliaci, non ci sono. Finita la messa ci saranno di nuovo, ma ora no. Ci sono persone, spogliate di tutto, povere di tutto. Senza la divisa di insegnanti, alunni, genitori. Uomini, donne e bambini. E io sento di volere bene a quei bambini, a quelle donne, a quegli uomini. Mi sento in comunione con loro. Mi sento come loro. Mi sento come "in famiglia". Una famiglia povera, perché in quel momento ognuno di noi è nudo. Ognuno di noi è solo un uomo, una donna, un bambino.

Allora penso che in quel momento, in quel refettorio, siamo un Presepe. E la cosa mi commuove e mi riempie di gioia. Mi rendo conto di avere stampato da un'ora un sorriso sulle labbra. Eppure, guardando da lì dietro, dall'ultima fila di sedie, ho ben presente i problemi miei e di ognuna di quelle persone. A volte problemi anche seri. Perciò questa gioia che sento dentro, che vedo anche stampata sui volti di tutti, mi sembra un miracolo. Il miracolo del Presepe.

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