mercoledì 14 gennaio 2009

Sette anime - recensione

In sette giorni Dio creò il mondo e in sette secondi io ho distrutto il mio. Con questa sentenza inizia il secondo film “americano” di Gabriele Muccino. Dopo aver raccontato una storia che rendeva omaggio alla Costituzione statunitense nella sua peculiarità, la ricerca della felicità come diritto inviolabile del cittadino, il regista romano torna a lavorare con la star hollywoodiana Will Smith per raccontare un’altra storia, apparentemente diversa e priva di legami con la precedente. In realtà, a pensarci bene, Sette anime è strettamente legato a La ricerca della felicità, come l’altra faccia della medaglia. Meglio: l’ombra, il lato oscuro. In precedenza Muccino aveva scelto come oggetto del suo film l’american dream, ovvero la caparbietà radicata nell’indole degli americani di perseguire il proprio sogno fino al suo raggiungimento. Ora, invece, il regista è andato a vedere cosa succede quando la felicità raggiunta, il sogno realizzato, si infrangono definitivamente. Ha fatto ricorso a una storia estrema, paradossale, che ha come filo conduttore il rimorso.
L’intreccio si dipana lentamente, in modo da lasciare a lungo lo spettatore incapace di capire cosa stia succedendo. Si percepisce subito che non è la solita love story strappalacrime, con lei nel letto di un ospedale e lui che l’assiste. L’amore fra i protagonisti, Ben Thomas (interpretato da Will Smith) e Emily Posa (Rosario Dawson), è infatti contornato da tanti elementi esterni che impongono di guardare al di là della coppia. Ci sono altre anime che necessitano di essere tenute in considerazione. Così vuole evidentemente una sceneggiatura il cui intento è quello di incuriosire il pubblico e portarlo a chiedersi come andrà a finire. Il pericolo però, in verità non del tutto fugato, è quello di ingenerare invece la spiacevole sensazione di una vicenda senza capo né coda. Solo da ultimo, infatti, attraverso un crescendo emotivo che ha il suo culmine in un finale struggente, il film riannoda tutti i fili pendenti, così che l’esito risulti per nulla scontato (anche se intuibile dagli spettatori più attenti).
Difficile riassumere la trama senza rovinare la sorpresa. Si rischia di dire troppo o troppo poco. Fare cenno all’argomento trattato, allora. Ma anche in questo caso, ci si può limitare solo a qualificarlo come serio e destinato a suscitare polemiche, come puntualmente è accaduto negli Usa. Ed è facile prevedere che anche in Italia sarà così. Si tratta infatti di una sorta di parabola laica di passione, morte e risurrezione, a partire però da un assunto incongruente, contraddittorio: non è la misericordia il motore della donazione di sé ma il rimorso, il senso di colpa. Forse per questo il film lascia l’amaro in bocca e la percezione di qualcosa di sbagliato. A conti fatti però si deve dare atto a Muccino di aver avuto coraggio nel portare sul grande schermo un tema importante, che sensibilizza le coscienze (e dividerle è un prezzo che si può pagare). Lo ha affrontato in maniera non banale, grazie a una regia ormai matura. Sette anime merita pertanto di essere visto, e magari rivisto e meditato prima di emettere un giudizio.
Alla seconda esperienza nel grande mondo di Hollywood, Muccino dimostra di aver colto molti tratti della complessa e per certi versi contraddittoria società americana. Con l’occhio esterno dell’osservatore europeo ha dapprima messo in luce la ricerca della felicità come una felicità “calvinista”, nel senso di pragmaticamente declinata con il benessere economico; ora si è soffermato invece sulla ricerca di una redenzione spirituale, che resta però ancorata a un senso della giustizia drammaticamente materialista.
Un’ultima notazione sul titolo italiano che, come troppo spesso accade, nella traduzione libera tradisce il senso dell’originale. L’inglese Seven pounds, letteralmente “sette libbre”, richiama il Mercante di Venezia di Shakespeare e fa riferimento dunque, in maniera significativa, a un debito da pagare in… carne umana.

Nessun commento: