domenica 12 ottobre 2008

Miracolo a Sant'Anna di Spike Lee

Il 12 agosto 1944, verso le sei del mattino, la sedicesima divisione corazzata Reichsfürer delle SS, arrivata in Italia dall’Ungheria e composta per due terzi da giovani sotto i vent’anni comandati da ufficiali e sottufficiali con esperienza effettiva nei lager, arrivò a Sant’Anna di Stazzema, paesino toscano inerpicato sulle Alpi Apuane. A guidarli sul posto furono alcuni collaborazionisti italiani. I tedeschi cercavano i partigiani, ma a Sant’Anna, a parte qualcuno di passaggio, di partigiani non ce n’erano. C’erano invece i rifugiati dei paesi vicini della Versilia, costretti ad abbandonare le loro case perché i nazifascisti avevano deciso di sgomberare quell’area a ridosso della linea gotica. A Sant’Anna avevano trovato una generosa accoglienza e la popolazione del paese era cresciuta in poco tempo, fino quasi a quadruplicare. Circa millecinquecento persone, ma nessun partigiano. I vertici militari tedeschi lo sapevano e, proprio per questo motivo, avevano annullato un precedente ordine del cinque agosto di evacuare il paese. Perciò quello che successe il dodici agosto nessuno se l’aspettava. Non lo si poteva neanche immaginare, perché quello che fecero le SS a Sant’Anna, va al di là di ogni immaginazione. Cinquecentosessanta morti: famiglie intere, donne (una con le doglie del parto), anziani, bambini, radunati nella piazza di fronte alla chiesa, dove la domenica all’uscita della messa si fermavano a chiacchierare, sparati con la mitragliatrice e poi bruciati in un immenso rogo appiccato con le panche della chiesa e i materassi delle case. A molti bambini venne sfondato il cranio con il calcio della pistola e poi vennero impalati. Altri furono arsi nei forni per il pane. No, una tale ferocia demoniaca non era immaginabile: Erode redivivo perpetuava la strage degli innocenti. Ma proprio questo era il compito della sedicesima divisione corazzata Reichsfürer: lo sterminio, il saccheggio, il terrore. Quando gli Alleati arrivarono a Sant’Anna, nel mese di settembre, non potevano credere ai loro occhi. Si misero subito a indagare su quell’eccidio che assunse ben presto i contorni di una storia talmente orribile da non poter essere raccontata. Infatti, quello che accadde a Sant’Anna non è stato raccontato per cinquant’anni. Non è stata una dimenticanza ma una precisa scelta politica. La nuova fase storica immediatamente successiva alla seconda guerra mondiale, la “guerra fredda”, aveva ribaltato le alleanze: i sovietici che avevano combattuto Hitler, ora erano i nemici; i tedeschi della Germania occidentale, gli amici. Perciò, semplicemente, non sembrava opportuno perseguire i criminali nazisti. Il 23 ottobre 1952 Kesselring venne scarcerato e nel 1954 Max Simon, comandante della sedicesima divisione Reichsfürer e unico ufficiale condannato per la strage di Sant’Anna, venne graziato e liberato dal governo inglese. Entrambi morirono all’inizio degli anni Sessanta senza aver rinnegato nulla del loro passato. Così la storia di Sant’Anna di Stazzema è rimasta sepolta negli archivi militari per cinquant’anni, fino al 1994. Il 25 aprile del 2000, il Presidente della Repubblica, Carlo Azeglio Ciampi, si è recato a Sant’Anna per celebrare la Festa della Liberazione. Nel 2004 è iniziato presso il tribunale di La Spezia un processo che si è concluso nel giugno del 2005 con le condanne all’ergastolo per tutti i responsabili dell’eccidio. Nel 2007 si è avuta la conferma definitiva delle condanne con la sentenza della Cassazione. La giustizia ci ha messo perciò sessantatre anni a raccontare la storia di Sant’Anna. La politica, invece, prima ha scelto di non farlo, poi non è riuscita a farlo: la commissione parlamentare d’inchiesta, istituita nel 2003, si è arenata in sterili polemiche di parte. Anche i libri di scuola l’hanno ignorata a lungo e ancora oggi non le dedicano lo spazio che meriterebbe, stretta com’è tra Marzabotto e le Fosse Ardeatine. C’è dunque un vuoto nella nostra società civile. Il vuoto di un Paese che non ha fatto del tutto i conti con il proprio passato; di un popolo che non è ancora riuscito a elaborare completamente il lutto della guerra civile, quella guerra di resistenza dalla quale si sono affermati i valori, già risorgimentali, di libertà e democrazia su cui si è voluta fondare la nostra Repubblica. Valori che non potranno dirsi del tutto condivisi finché la nostra società non avrà completato questo percorso di presa di coscienza delle responsabilità. Di tutte le responsabilità, da una parte e dell’altra, senza più manicheismi ideologici e tabù storici, ma senza neanche cadere nelle sabbie mobili di un relativismo etico e di un revisionismo altrettanto ideologico che impedirebbero di distinguere chi ha combattuto per quei valori e chi invece vi ha combattuto contro. Un percorso culturale ancora lungo che ci coinvolge tutti in quanto cittadini italiani, a tutti i livelli, e che non può essere delegato alla sola giustizia processuale, ma neanche alla sola politica.
Tantomeno può essere delegato al cinema, soprattutto a quello straniero. Il film di Spike Lee, Miracolo a Sant’Anna, non può restituirci la verità di quegli avvenimenti perché è un’opera di finzione. Forse gli si poteva chiedere un maggior rigore storiografico, ma in fondo non è così importante. Il fatto che il regista americano abbia legato la strage di Sant’Anna a una rappresaglia figlia del diktat di Kesselring (dieci civili uccisi per ogni soldato tedesco caduto sotto il fuoco nemico), o che abbia mostrato il tradimento di un partigiano, ha creato tanto scalpore perché ha rivoltato il coltello in una piaga che ancora non si è rimarginata completamente. Ma se non è stata curata bene, la colpa non è di Spike Lee. L’indignazione un po’ ipocrita (non quella di giornalisti-testimoni come Giorgio Bocca, ovviamente, ma quella di quanti prima del film ignoravano perfino l’esistenza di Sant’Anna), seguita all’uscita in Italia del film, è solo la prova di una debolezza in seno al nostro vivere civile, che fatica a ri-unirsi e ri-conoscersi intorno ai valori scritti nella Costituzione, come di recente ha amaramente ammesso il Presidente Giorgio Napolitano. Se non la raccontiamo noi la nostra storia, se non sappiamo trarne gli opportuni insegnamenti, non possiamo lamentarci che siano altri a farlo, e che non lo facciano come ci piacerebbe. In più, Spike Lee, solo per inciso voleva parlare di Sant’Anna, com’era ovvio che fosse, non essendo lui italiano. L’episodio storico gli è servito come scusa per affrontare il tema che gli sta da sempre a cuore, viste le sue origini: la discriminazione razziale negli Stati Uniti d’America, inquadrata nel caso specifico di un battaglione di soldati di colore che hanno combattuto durante la seconda guerra mondiale. Il suo non è un film sull’Italia e sulla sua storia. È un film sugli Stati Uniti, e piuttosto quelli di oggi che quelli di ieri, giunto com’è in piena campagna elettorale, con un leader di colore per la prima volta candidato alla Presidenza. Spike Lee parla dunque di razzismo e a un certo punto fa dire a un soldato afroamericano che in Italia non si sente discriminato come nel suo Paese. Forse, dopo i recenti episodi di cronaca, ci saremmo dovuti interrogare sulla bontà di questa affermazione nella nostra società di oggi. Spike Lee parla anche della tragica insensatezza della guerra, soprattutto agl’occhi di Dio, che viene ripetutamente chiamato in causa, a partire dal titolo. Il miracolo che avviene a Sant’Anna è la capacità che i protagonisti hanno di trovare un senso alla vita nel momento in cui viene più drammaticamente negato dalla guerra e pur nelle più atroci sofferenze. Anzi proprio in quelle viene trovato il senso: è significativo che nella scena finale venga baciato un crocifisso.
Di fronte alla portata di questi messaggi, alle riflessioni che suscitano, le argomentazioni tecniche sulla regia, o i dubbi sulla coerenza della sceneggiatura, passano davvero in secondo piano.

Nessun commento: