martedì 19 maggio 2009

Angeli e demoni - recensione


Angeli e demoni è precedente al Codice da Vinci ma in Italia è stato pubblicato dopo. Rispetto a quest’ultimo ha avuto meno successo. La cosa non desta meraviglia, non solo perché battere l’exploit del Codice era difficile, anche per lo stesso Dan Brown. Il vero motivo è che Angeli e demoni è un romanzo meno riuscito. Il suo peccato originale è l’inverosimiglianza. Il miracolo della letteratura è che si possono inventare infiniti mondi, lasciando briglia sciolta alla fantasia. L’unico limite è che devono essere mondi possibili. Devono, in altre parole, consentire al lettore quella sospensione dell’incredulità che gli fa dire: “Ok, è incredibile, non succederà mai… però, chissà…”; oppure: “Nella vita reale è impossibile, ma qui si tratta di un mondo fantastico, totalmente immaginario…”.
Questo secondo caso pertiene al campo della letteratura di fantascienza, in particolare del fantasy, ma non è il genere a cui fa riferimento Angeli e demoni, che si ambienta nel mondo reale e quindi ha l’obbligo di rimanere entro i paletti della verosimiglianza. Il buono spunto iniziale del romanzo, incentrato sulle ricerche scientifiche nel campo dell’antimateria, avrebbe dovuto garantire la patente di scientificità che Brown ricerca sempre nei suoi scritti. Ma non è stato sufficiente. Man mano che ci s’inoltra nella lettura di Angeli e demoni anche il lettore meno esperto di cose di scienza ha l’impressione che l’autore non padroneggi bene la materia (…dell’antimateria). La sensazione acquista più corpo quando la vicenda si sposta nei corridoi più segreti del Vaticano, che Brown immagina ma evidentemente non conosce. In particolare, è il personaggio del camerlengo a suscitare le perplessità maggiori. Più cresce la sua importanza nell’intreccio più la sua inverosimiglianza mina la credibilità della storia, fino al punto da distruggere la sospensione della incredulità e spingere il lettore a sorridere proprio nei momenti in cui dovrebbe invece sentire la tensione, il thrilling. Peccato mortale per un giallo. Da questo punto di vista, Il codice da Vinci, pur conservando qualche difetto, è sicuramente un libro più riuscito e il successo planetario che ha ottenuto è giustificato. I lettori sono meno ingenui di quanto si creda.
Il film tratto da Angeli e demoni conserva questo peccato originale del romanzo. Per non cadere nell’inverosimiglianza avrebbe dovuto discostarsi maggiormente dallo scritto di Dan Brown. Avrebbe potuto, per una volta, tradire il romanzo, in particolare ridisegnando in maniera più compiuta il personaggio cruciale del camerlengo. Ma il regista, Ron Howard, non l’ha fatto. In più, ha voluto condire il suo piatto con le pietanze tipiche del thriller commerciale. Alcune buone, come certi effetti speciali e la steadycam, altre più indigeste, come i particolari splatter. Anche sugli effetti speciali ci sarebbe qualcosa da dire. La ricostruzione virtuale della Basilica di San Pietro è per certi aspetti straordinaria e testimonia quante cose si possono realizzare oggi con la grafica digitale. Tuttavia la moderna tecnologia non ha raggiunto ancora quel grado di perfezione tale da identificarsi completamente con l’immagine dal vero. In altre parole, lo spettatore può cogliere un che di posticcio nella ricostruzione virtuale dei luoghi sacri della religione cattolica. La conseguenza è che il film ha ancora più difficoltà a conservare nello spettatore la sospensione dell’incredulità, obiettivo come detto già fallito dal romanzo.
A dire il vero, però, questa colpa del regista ha un attenuante nel fatto che non gli è stato consentito di girare all’interno della Basilica di San Pietro. Il Vaticano ha ritenuto che la storia mostrasse uno scarso rispetto del sentimento religioso. E forse erano ancora vivi gli strascichi delle polemiche sul Codice da Vinci. Nella conferenza stampa di presentazione del film, Ron Howard si è lamentato di questo ostruzionismo che ha creato non poche difficoltà alla realizzazione del film. Per certi aspetti la posizione del Vaticano è comprensibile, ma forse le gerarchie ecclesiastiche avrebbero potuto cogliere l’occasione per aprire le porte al regista e allo scrittore, che sono pur sempre persone rispettabili e di cultura, per mostrare loro come vanno realmente le cose all’interno delle mura vaticane. Avrebbero potuto far loro conoscere il vero camerlengo. Farli parlare. Mettere in contatto, in dialogo. Questo avrebbe probabilmente aiutato tanto il regista quanto lo scrittore a realizzare un’opera migliore perché più verosimile, e magari meno irriverente. Chiudere le porte, rifiutarsi di accogliere, non è mai una buona cosa, tantomeno se le porte sono quelle della Chiesa. D’altronde non ci può essere blasfemia in un’opera che non parla di Dio ma della Chiesa. E la presentazione della stessa come un’istituzione di potere può essere sbagliata, ma si può capire perché è funzionale a un thriller, che si occupa di morti violente, non di carità e missioni umanitarie. Infine, l’immagine della Chiesa come potere oscuro, chiuso in se stesso, autoreferenziale, si sarebbe potuta confutare proprio con un atteggiamento di collaborazione e di apertura verso quelle che sono pur sempre opere di fantasia, che hanno come unico scopo l’evasione, e che perciò lasciano il tempo che trovano.

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