venerdì 8 maggio 2009

Come un uomo sulla terra

Ho visto questo film. L'ho proiettato a scuola. Lo consiglio a tutti. Ne ho scritto un pezzo che non so se mi verrà pubblicato, ma spero di sì. In ogni caso lo metto sul blog.

È del 2oo8, ma non è uscito nelle sale. Per vederlo si può solo consultare il calendario delle proiezioni sul sito http://comeunuomosullaterra.blogspot.com/ S’intitola Come un uomo sulla Terra. Il regista è Andrea Segre. In termine tecnico si tratta di un docu-film, brutta parola per indicare un’opera che è qualcosa di più di un documentario e (forse) qualcosa di meno di un film. L’avverbio dubitativo è d’obbligo se anche un maestro del cinema come Ermanno Olmi ha scelto recentemente di utilizzare questo linguaggio. Del film ha il montaggio cinematografico, i personaggi con le loro storie intrecciate, intercomunicanti; del documentario ha il fatto che non ci sono attori, perché quei personaggi sono in realtà persone che non recitano ma raccontano la loro vita. Lo fanno con un certo pudore, qualcuno con gli occhi lucidi, qualcun altro con la mandibola contratta, perché non è una bella vita la loro. Vorrebbero dimenticare, cancellare tutto ciò che è stato, ma sentono il dovere di vincere ancora una volta il dolore, riaprendo ferite non ancora rimarginate del tutto, se mai lo saranno, per testimoniare. Come i reduci dai campi di sterminio nazista non molti anni fa.
Dag, che assume il compito del narratore-intervistatore, dice che la storia potrebbe iniziare circa cento anni fa, quando l’Italia cercò di conquistare la Libia, “e i nostri bisnonni s’incontrarono”. Ma poi preferisce non partire da così lontano, anche perché a tornare indietro bisognerebbe ripercorrere tutto il colonialismo europeo, dalla scoperta dell’America in poi. Meglio allora rimanere sull’oggi. Prima di cominciare le interviste, Dag ci tiene a dare conto di sé: ha lasciato l’Etiopia quando, studente di Giurisprudenza, ha capito che nel suo Paese la corruzione non lasciava spazio alla giustizia. È scappato da Addis Abeba senza neanche salutare suo padre, per paura che lo fermasse. Senait, invece, è scappata a causa della guerra tra Eritrea ed Etiopia. Il padre venne espulso, lei rimase sola con la mamma, e quando questa morì decise di lasciare il Paese. Anche Mimi è scappato, pur avendo una moglie e una figlia di sei anni che lo abbracciano e gli sorridono da una fotografia sgualcita. Ha gli occhi rossi e quasi urla quando dice che l’ha dovuto fare. È fuggito perché altrimenti l’avrebbero ammazzato. A Tighist, invece, avevano detto che in Libia avrebbe guadagnato abbastanza per mandare soldi alla sua famiglia. C’era bisogno, perciò è partita.
Non c’è romanzo né poesia nel loro addio ai monti. C’è invece l’inizio del calvario nel loro viaggio in direzione della Libia, poi, chissà, dell’Italia. È Negga, un ragazzo (sono tutti giovanissimi), il primo a raccontare di quella jeep in cui erano ammassati, stretti come sardine, senza aver mangiato, senza acqua nel deserto, senza la possibilità di chiedere una sosta, almeno per andare in bagno o vomitare. Per quello bisognava arrangiarsi con una mezza bottiglia di plastica. Sotto la minaccia del coltello, nessuno aveva il coraggio di lamentarsi. Per Mimi, invece, non era un coltello ma la sciabola che l’autista menava alla cieca, sporgendo la mano dal finestrino in direzione del tetto dove erano stipati i passeggeri, rei di non assecondare come dovuto il veicolo in curva per evitare che cappottasse. E in discesa dovevano scendere, per poi rincorrere di nuovo la jeep e saltare a bordo. Pena rimanere nel deserto, da soli. Come è successo a Fikirte, che aveva pagato duecentocinquanta dollari per quel viaggio, eppure, lì, nel deserto, è stata lasciata per quattordici giorni, prima che i suoi “intermediari” si rifacessero vivi con un altro carico di profughi, provenienti dal Darfur. In tutto quarantacinque persone in una sola macchina, una Land Rover. Poi, arrivati in Libia, per raggiungere Bengasi bisognava pagare ancora. In denaro… o in natura. Fikirte aveva finito i soldi. Porta ancora i segni delle corde che l’hanno stretta per nove giorni, fino ad otturarle le vene e le arterie delle braccia, ancora livide a distanza di anni.
Fin qui le violenze dei trafficanti. Poi quelle della polizia libica. John quasi ride quando Dag gli chiede se l’hanno portato in tribunale. Non ci sono tribunali in Libia. C’è la prigione, a tempo indeterminato. E in prigione può succedere che in un giorno solo arrivano centoquaranta persone, come è successo a Dawit, che non aveva neanche lo spazio per distendere le gambe. La prigione dove Tsegaye racconta che i poliziotti li registravano a schiaffoni, che erano sporchi e gli veniva data solo una bottiglia d’acqua a testa per ventiquattro ore, con cui dovevano fare tutto: lavarsi, bere e pulirsi dopo i bisogni. Le prigioni dove Tighist ha dovuto buttare la croce che aveva al collo, avrebbe preferito morire ma ha dovuto farlo, facendosi coraggio col pensiero che tanto tutti loro rimanevano cristiani anche se li avessero sbattuti al muro. Ma poi non riusciva a non urlare quando vedeva gli uomini picchiati sulle piante dei piedi e in bocca fino a perdere tutti i denti. E per le donne era anche peggio, come quella che era incinta e il poliziotto le premeva la pancia con un bastone e le diceva “Hai in pancia un ebreo e vai in Italia e poi in Israele per combattere gli arabi”.
Uscire dalla prigione non significa libertà. Significa un container con qualche piccola feritoia, per consentire di respirare a un centinaio di persone chiuse dentro. Direzione Kufrah, sempre in Libia ma verso l’interno, distante da quel mare che separa l’Africa dall’Italia. Un altro viaggio, però indietro. Dopo mesi, per qualcuno anni di carcere. Un viaggio di un giorno e mezzo, di nuovo attraverso il deserto. Senza soste per il bagno, ovviamente. Chi non resiste, può farsela addosso, in piedi perché non c’è modo di sedersi. Senza bere, qualcuno non ce la fa. Qualcuno sviene, qualcuno muore. Qualcuno impazzisce. Si dice che questi container i libici li abbiano avuti dall’Italia, in regalo. Insieme a gommoni, fuoristrada, pullman, coperte di lana, materassi, sacchi per i cadaveri. Ventitré milioni nella finanziaria del 2004, venti nel 2005. Nel 2007 l’Eni si accorda con lo Stato libico per la produzione di gas in Libia per 28 miliardi di dollari in dieci anni. Questi dati scorrono sui primi piani di Fikirte, di Tighist. Rientrano nella politica di cooperazione tra i due Paesi. L’Italia (sia i governi di centrodestra che di centrosinistra) ha finanziato la Libia in cambio di un aiuto nella limitazione dei flussi migratori. Così, per l’Italia a Kufrah c’è uno dei centri per stranieri costruiti grazie al finanziamento italiano, per Dag e gli altri c’è la prigione dove sono stati torturati. Si chiedono com’è possibile che i vertici politici italiani ed europei non lo sappiano. Uno di loro si meraviglia che i giornalisti italiani non vadano a controllare: non sono forse liberi i giornalisti in Italia?
Dopo Kufrah, per chi sopravvive, c’è l’espulsione. Ma è solo una tragica messa in scena. La polizia libica, che dovrebbe scortarli fuori dal Paese, li vende di nuovo agli “intermediari”. Per trenta dinari (17 euro). Così ricomincia la giostra dell’orrore. Per tornare a Tripoli, gli “intermediari” vogliono altri soldi. Avanti e indietro. Qualcuno, come John è stato venduto fino a sei, sette volte, prima di riuscire a imbarcarsi per l’Italia. Ma il viaggio verso il nostro Paese è un’altra storia, la storia della Pinar, per esempio. La permanenza, un’altra ancora: la racconta un bell’articolo del National Geographic di aprile. Ed è una storia di schiavitù, ambientata nelle campagne calabresi, pugliesi, siciliane.
Alla fine del film, Dag dice che non gli piacciono i gatti. Quando era piccolo ha visto la sua gatta che uccideva i più deboli dei suoi cuccioli e lasciava vivere i più forti. Secondo Dag, l’Italia fa così con gli immigrati: se riescono ad arrivare gli concede il diritto d’asilo, ma i più deboli li lascia alla Libia.
Chi avrà la fortuna di vedere Come un uomo sulla Terra si chieda se questi sono uomini, che vengono deportati, torturati, venduti, uccisi. E poi torni a casa, rilegga l’articolo tre e l’articolo dieci della nostra Costituzione e si chieda se siamo cittadini italiani, noi che vediamo in Dag, Senait, Mimi, Tighist, Negga, Fikirte, John solo dei clandestini irregolari. Legga l’articolo quattordici della Dichiarazione universale dei diritti umani e si chieda se siamo uomini. Infine ripensi a queste persone vendute per trenta dinari e si chieda se siamo cristiani.

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